Opeth – Damnation (2003)

Damnation degli Opeth non è l’album che ascolto di più in assoluto, forse forse lo riascolto per intero una volta ogni due anni. Credo sia una stima credibile. Non lo ascolto perchè a suo tempo l’ho ascoltato pure troppo. Erano gli anni dell’Università e le chiacchierate con The Crazy Jester e le domande: ma Damnation è meglio o peggio di Deliverance? La risposta è semplice: certo che è meglio di Deliverance. Non ci sono dubbi. Lo ascolto ogni due anni, vero, ma dentro ci sono canzoni come Windowspane, In My Time of Need o Death Whispered a Lullaby (testo scritto da Steven Wilson dei Porcupine Tree, ultima volta al timone delle registrazioni degli Opeth) e basterebbero queste per vincere a mani basse anche sulla discografia futura della band svedese. Damnation, lo sanno anche i sassi, non è un disco death, non è un disco metal, ma è un gran disco progressivo, elettroacustico, con tanta malinconia e bruma a posarsi sulle canzoni. Malinconia, peraltro, ben raffigurata dalla cover art – sorella di quella di Deliverance, ma pur dispiegando molta “luce”, ha quel tocco crepuscolare che piace.
Damnation all’epoca mi spiazzò, da metallaro ero ancora abituato a tutt’altra musica da parte di Åkerfeldt e compagnia, e anche se quanto proposto dalla band su Blackwater Park segnava già un passaggio verso sonorità “più mature” (?), il successivo e ferale Deliverance sembrava aver rimesso il death metal al centro del villaggio. Non era così, ma non l’avevo ancora capito e questo Damnation non era altro che il primo verso un futuro contraddistinto da sempre maggior progressive rock e sempre meno metal e/o death metal. I tempi stavano cambiando e io non me ne ero accorto. Ho visto gli Opeth in tour, al Gods, a supporto di Ghost Reveries e mi avevano deluso profondamente, ma il motivo non era quello che suonavano (forse anche quello), ma piuttosto il contesto e l’open air, non adatto a quanto gli svedesi stavano diventando.
Son passati vent’anni e continuo a credere che Damnation sia un LP di profondo fascino. Insidioso, visto che se lo prendi dal verso sbagliato può anche annoiare, ma è profondo, gradatamente complesso e subdolamente accessibile, visto che le melodie sono ottime e alcuni passaggi mi hanno sempre preso benissimo. Se dovessi scegliere, punto sempre sulle prime 5 tracce del disco, mentre da To Rid The Disease fino a Weakness ho sempre avuto più difficoltà, forse perchè in realtà Ending Credits non mi piace moltissimo.
A vederlo adesso, forse l’ultimo vero grande disco degli Opeth. Da questo momento in avanti non hanno più attirato la mia attenzione, chissà se mi cimenterò con i prossimi compleanni. Chi vivrà vedrà.
[Zeus]