Visionoir – The Second Coming (2021)

Con un po’ di ritardo arriviamo a recensire The Second Coming, secondo full-lenght dei Visionoir, progetto del polistrumentista Alessandro Sicur. Il nuovo album arriva a distanza di quattro anni dal precedente The Waving Flame of Oblivion, uscito nel 2017, riprendendone e portandone oltre le sonorità progressive/avantagrade, appesantendo ulteriormente la proposta indirizzando la parte più heavy verso lidi decisamente death metal. 

L’opener Lost in a Maze è un concentrato di death, progressive ed inserti elettronici, con voce sia in clean che in growl ed è emblematica di ciò che troveremo all’interno dell’album. La successiva The Snooping Shadow mostra il lato più sperimentale e folle della band. Ascoltando il cd più volte i richiami che ho avuto sono stati gli Arcturus, con le loro evoluzioni spaziali, e il Devin Townsend più sperimetale ed estroso, con un uso massiccio di effetti e virtuosismi strumentali. 

Nel suo insieme The Second Coming segue una direzione ben precisa e comprensibile, ma personalmente l’ho trovato eccessivamente carico di inserti ed effetti che vanno a sommarsi ad una base già composta da molto strati. Poi che questo possa essere un difetto o meno dipende anche dai gusti dell’ascoltatore e da quanto sia all’interno di questo genere. Ho trovato dell’ottima musica qui dentro, sia chiaro, ma in alcuni momenti arrivava a sovraccaricarmi di input tanto da richiedere una pausa prima di continuare l’ascolto.

Da segnalare la presenza di Clarissa Durizzotto al sassofono in Horror Vacui e nella conclusiva title-track, mentre alla voce troviamo come ospiti Fabio Vogrig (Handful of Dust, Noioc, End of Eternity) e Alessandro Serravalle (Garden Wall). The Second Coming piacerà sicuramente agli appassionati di avantgarde, progressive e sperimentazione, mentre potrebbe risultare un po’ ostico a tutti gli altri.

[Lenny Verga]

Grave Digger – Symbol of Eternity (2022)

La carriera dei Grave Digger è lunga quasi quanto la mia vita, essendo la band nata nel 1980 e io un anno prima. Il mio primo album della band fu Tunes of War, che oggi possiamo definire un classico. I Grave Digger hanno raggiunto il traguardo di 42 anni di carriera e di 20 album in studio. In media una release quasi ogni due anni, una costanza invidiabile, una dedizione al metal encomiabile. Ecco perché considero la band tedesca come parte di quello zoccolo duro che, anche senza mai essere arrivato ai vertici della scena, la sostengono come se fossero la sua ossatura. 

Symbol of Eternity esce a due anni di distanza dal precedente Fields of Blood e, come quest’ultimo riportava Chris Boltendahl e soci sui campi di battaglia scozzesi, il nuovo lavoro torna su quelli delle crociate. I concept incentrati su eventi storici sono ormai uno dei marchi di fabbrica della band e devo dire che ho sempre apprezzato. 

Symbol of Eternity ci presenta una band in forma, ma quando mai i ‘Digger non lo sono stati? Sono veramente rari i momenti in cui i tedeschi non sono stati a livello delle aspettative ma non sono mai nemmeno andati troppo oltre ad esse e questo lavoro non fa eccezione, suonando Grave Digger al 100% senza nulla aggiungere e nulla tagliere a quanto fatto dalla band in passato, presentandoci dieci pezzi (più un intro ed un intermezzo) di classico metallo tedesco vecchia scuola, veloce, roccioso, consolidato nella struttura, con i soliti prechorus e chorus da cantare in coro e che entrano subito in testa, la formula la conoscete. I pezzi funzionano praticamente tutti, assestandosi su un livello omogeneo di scrittura. Conclude il lavoro la cover di Hellas Hellas di Vasilis Papakonstantinou.

A me fa sempre piacere l’arrivo di un nuovo album dei Grave Digger che, senza particolari guizzi di originalità e di novità nel proprio sound, ma anche senza mai mancare il bersaglio, spesso pure prevedibili se vogliamo (ma è dura non esserlo dopo tanti anni e tanti album), ci portano sempre una sana dose di metallo fatto con passione. É come ricevere una visita da un vecchio amico sempre benvenuto.

[Lenny Verga]

Pan-American Native Front – Little Turtle’s War (2021)

Dopo i Vital Spirit e i Wayfarer, arriva anche il turno dei Pan-American Native Front di essere recensiti su queste pagine. Ammetto che non li conoscevo prima di sentire gli ottimi canadesi Vital Spirit e, visto che il binomio retaggio indigeno/indiano – black metal mi sta prendendo bene in sto periodo, allora ho deciso di approfondire il discorso andando a pescare informazioni sul web e, precisamente, dentro Metal Archives. I P-ANF non sono il primo gruppo che salta fuori dalle ricerche, ma perchè non dare un’occasione anche a Kurator of War e la sua band? Rispetto ai Wayfarer o Vital Spirit, il black metal dei Pan-American Native Front è più veloce e rabbioso, dai tratti raw e attitudine war metal, anche se dentro ci sono melodie e parti “folk”, seppur meno evocative dei Vital Spirit e più tribali dei Wayfarer. Il Cd è immerso in un sound abbastanza confuso, fangoso, che dona a Little Turtle’s War una maggiore bellicosità, ma fa perdere un po’di dettagli sommersi nel riverbero e nella nebbia della registrazione. La batteria è padrone di tutto, con un suono che passa dalle bordate tribale dell’apertura Assembly of the Western Confederacy alle parti in cui viaggia sul classico palla lunga e tupa-tupa col blast beat. Lo screaming contribuisce all’atmosfera con il suo timbro demoniaco, ma personalmente non comprerei il Cd perchè sbrodolo sullo screaming di Kurator of War.
I rimandi musicali guardano con attenzione al duetto scuola finnica e scuola norvegese, il tutto trapiantato in un immaginario da Far West. Non riesco a capire se la parte folkloristica sia sincera, di facciata o veicoli altri messaggi, ma ha un che di avvincente e le tematiche, così poco sondate nel mondo black metal, non possono che affascinare. Quello che mi piace di Little Turtle’s War è il suo riuscire a incidere sia quando accenna a mettere più groove e accenni di black’n’roll (come Michikiniqua’s Triumph) o gli assalti war metal di Power of the Calumet Dance, che nel suo incedere grezzo e veloce sembra rimandare al senso d’ebbrezza proprio del calumet e dell’estasi da battaglia.
Non tutto in Little Turtle’s War funziona, però il disco ha dei pregi evidenti e una tracklist interessante. Le canzoni hanno, sotto la cacofonia, un minimo di respiro “epico”, che viene amplificato, o anestetizzato, dalla grossa dose di astio che il mainman dei Pan-American Native Front tocca (una The Great White Beaver Lurks è lenta rispetto al resto, ma si fonda su un fragile equilibrio fra epicità, atmosferica e grezzume black metal).
Il disco si chiude con la lunga e, per me, impronunciabile Nakaaniaki meehkweelimakinciki. Questa è un biniami di cosa propongono i Pan-American Native Front: il war metal alla Archgoat, i rallentamenti più cadenzati e le derive melodiche con le chitarre acustiche, molto atmosferiche e quasi cinematografiche.
[Zeus]

Ewigkeit – Out of the Woods EP (2022)

Out of the Woods è la sedicesima release ufficiale degli inglesi Ewigkeit, one man band dietro alla quale si cela Mr. Fog, musicista poliedrico attivo in un non ben definito numero di band e che ha militato pure negli In the Woods… dal 2015 al 2021 (sarà un caso il titolo?). Devo ammettere che nonostante siano attivi dal 1995, non li conoscevo. Mea culpa.

Questo EP composto da soli tre pezzi punta molto sull’essere evocativo, soprattutto attraverso l’uso di clean vocals, utilizzate in quel modo anche da cantanti come Garm (Kristoffer Rygg, per non confondersi), se volete dei punti di riferimento. Musicalmente si va dal doom, anche se non proprio canonico, al death melodico, al gothic, al black, puntando molto sulla melodia, con chitarre armonizzate, ritornelli epici e drammatici allo stesso tempo, in particolare nell’opener The Wolf Returns. Le influenze più estreme si fanno sentire maggiormente dalla seconda traccia, Evergreen, in cui compaiono il cantato in growl e dei riff che virano decisamente verso il black. La terza e ultima traccia, Namestealer, è anche la più sperimentale, introducendo parti industrial. Un bel mix che piacerà sicuramente a chi apprezza certe derive melodiche e sperimentali del metal estremo nord europeo. 

Non c’è tantissimo da analizzare, data la brevità del lavoro, ma i tre pezzi sono validi, elaborati e con un fondo di sperimentazione che sorprende in più occasioni. Gli Ewigkeit a tratti mi hanno ricordato i Solefald e gli Ulver. Certo un full-lenght sarebbe stato più interessante, ma Out of the Woods è un quarto d’ora di tempo ben speso.

[Lenny Verga]

Bloody Redemption – Hit to the Gore (2022)

A noi di The Murder Inn piace, musicalmente parlando (ma anche fisicamente, quando possibile), girare per il mondo alla scoperta di nuove band e scene. Oggi è il turno della Slovacchia con i Bloody Redemption, che si sono formati nel 2012 e hanno debuttato nel 2017 con un full-lenght intitolato Infected Minds. I quattro sono evidentemente innamorati pazzi del death metal di fine anni ’80 e primi anni ’90 e sono intenzionati a dare il loro contributo a quel sound che ha una marea di fan ancora oggi.

Hit to the Gore inizia con una traccia, Unknown Evil, caratterizzata da un’introduzione piuttosto melodica e che prosegue poi quadrata su riff abbastanza canonici ma che sanno coinvolgere. Con il secondo pezzo, Vultures Waiting, la band alza il livello di violenza sonora, partendo veloce e  continuando cattiva fino alla fine.

La scaletta è compatta, composta da otto brani che si mantengono su un livello costante e cercano anche di variare nella struttura e negli incipit: la title-track attacca con uno scambio di assoli di chitarra, mentre The Dark Side of a Human Soul crea un’atmosfera oscura utilizzando un’intro e cambiando umore in continuazione, un pezzo ambizioso di sei minuti che riesce nel suo intento. La successiva Beyond the Truth invece gioca sui rallentamenti ad effetto. Ce n’è per tutti i gusti insomma, e la band cerca tutte le soluzioni possibili per mantenere alta l’attenzione dell’ascoltatore, riuscendoci pure bene.

I Bloody Redemption devono molto al death americano, quindi piaceranno ai fan di Aborted, Immolation, ecc, e compensano la relativa mancanza di originalità con un’esecuzione di tutto rispetto, una buona tecnica ed un songwriting che sa farsi apprezzare. Io li terrei d’occhio.

[Lenny Verga]

Wayfarer – A Romance with Violence (2020)

Volevo recensire quest’ultima prova dei Wayfarer dopo aver buttato giù le ultime righe del disco dei Vital Spirit, ma il tempo bastardo mi ha privato di questa possibilità. Allora eccomi qua con ritardo notevole a scrivere di un disco del 2020. Come potete capire anche voi dalla copertina del disco, ho approcciato i Wayfarer perché, come i canadesi Vital Spirit, dovrebbero approcciare il black metal in maniera diversa dal solito. In altri termini, la matrice folk è quella americana e non un qualche derivato del Nord Europa.
Quindi nessun tentativo di essere i Wardruna o i Gaahls Wyrd americani, ma l’idea è quella di essere una band black metal americana con tematiche di natura americana.
Ed i Wayfarer americani lo sono, per la precisione di Denver, e rispetto ai Vital Spirit, su A Romance with Violence prendono il tema western con maggiore cautela: dal punto di vista musicale lo incorporano in maniera parca, mentre sotto l’aspetto lirico si immergono di più nella tematica della frontiera. Come ho già detto nella recensione apposita, non è che i Vital Spirit siano degli hippy che certe volte fanno degli scream, sono una black metal band che spinge forte e poi ha aperture “cinematografiche” in stile western o passaggi folk/di americana che rendono il disco molto diverso da quanto sentito negli ultimi anni. I Wayfarer, invece, racchiudono molto del folk negli strumentali e partono con un cascadian black metal che ne sancisce l’appartenenza ad una determinata scena. Se nei primi due pezzi il “folk” è più accumunabile ad aperture atmospheric black metal rispetto a veri e propri momenti roots/western (la chiusura di The Iron Horse o la seconda parte di The Crimson Rider parlano questo linguaggio), è a partire dal terzo brano che qualcosa cambia. Fear & Gold è tutta in clean e ha quasi un feeling alla Depeche Mode stralunati da giorni su un carro e attaccati dagli indiani, mentre la qualità e la capacità di gestire i due registri così differenti aumenta proprio quando il quartetto di Denver tocca le due canzoni conclusive: la complessa Masquerade of the Gunslingers e l’altrettanto strutturata Vaudeville. Entrambe le canzoni si muovono su un percorso similare, forse con la prima più “pesante” e la seconda con una maggiore tendenza ad aprirsi ad atmosfere e paesaggi di natura Old Wild West (non la terribile catena di ristoranti).
Ho approcciato i Wayfarer con determinate aspettative che, ad essere onesto, sono state rispettate all’80%, con la doppietta iniziale di buona fattura sì, ma forse un po’ troppo “anonima”, mentre A Romance with Violence ritengo faccia un salto di qualità notevole proprio quando pensavo di trovarmi di fronte all’ennesimo disco che promette più di quanto possa mantenere.
[Zeus]

Black Sabbath – Past Lives (2002)

Quanto mi piace questo doppio disco dal vivo. Forse é piú un concetto affettivo che di reale valore, visto che il primo LP é niente meno che il famigerato Live at Last del 1980 (uscito giusto per far incazzare un po’ il buon Ronnie James Dio all’epoca appena entranto nei Sabbath), mentre il secondo racchiude un collage di canzoni tratte dall’ormai iconica serata a Parigi del 1970 e un trittico di tracce da un concerto americano del 1975. Non proprio novitá assolute, se si esclude la tripletta Hole in the Sky – Symptom of the Universe – Megalomania, visto che erano state registrate per un LP dal vivo abortito prima di uscire.
Ma band ai tecnicismi che non interessano a nessuno, figuriamo a voi che leggete questa rubrica quando siete sul cesso e vi chiedete se dovete pulirvi il culo con la carta o solo con le dita e poi lavarvi le mani.
Live at Last é entrato nella mia vita in maniera quantomeno particolare. All’epoca ero in giro per l’Umbria, per la precisione Perugia, perché un mio compagno delle superiori aveva incominciato a frequentare l’Università in quella cittá. Quindi perché non approfittarne e non andarlo a trovare nei momenti dei traslochi o, strano ma vero, anche per l’Umbria Jazz Festival. A me, del jazz, non me ne é mai fregato un cazzo; scusate se faccio outing in questo modo ma proprio non l’ho mai capito appieno, anche se ad un certo punto mi ero preso non bene, diciamo decentemente, ad ascoltare John Scofield e compagnia suonante. La fase é durata il tempo di uno starnuto, quindi non sono mai entrato in contatto con questo modo di pensare e dopo i primi due tentativi d’ascolto della cassettina con tutto il jazz minuto per minuto mi é venuta una certa allergia al genere e l’ho lasciato nel compost delle cose che non so quando, e se mai, recupereró. Peró il Jazz Festival era un bel momento di vedere una cittá nel pieno di un evento grosso e internazionale, Bolzano, una cosa cosí, la “sperimenta” solo con i mercatini di Natale ed é solo una cosa ossessiva vedere stormi di bus arrivare in centro e girovagare come mandrie di nutrie per gli stand. Visto che gli eventi interessanti ero per lo piú alla sera, durante il giorno ci siamo sempre mossi per l’Umbria, andando a scoprire una cittadina, un paese o alla ricerca di qualcosa da mangiare per poi arrivare alla sera a Perugia, dove lui aveva l’appartamento con altri due/tre tizi, e poi si usciva a bere e sentire musica. Durante uno di questi giri, ci siamo fermati davanti ad un negozio che metteva tutto in vendita con il 50%-70% di sconto a causa della rottura delle tubature dell’acqua, cosa che aveva fatto marcire metá collezione di dischi e rovinato diversi CD. Uno di questi era Black Sabbath – Past Lives. Venduto come CD singolo, nonostante fosse doppio, al prezzo incredibile di pochi euro, si é rivelato la colonna sonora principale di trequarti dei giorni che siamo rimasti in zona Perugia. Come potevi staccarti da un doppio LP di questo tipo? Non suonava artefatto come Reunion e aveva una qualitá sonora decente, con tanto di formazione originale e pezzi che abbracciano il mio periodo preferito della band – sí, Sabotage compreso e con orgoglio. Non so se Past Lives sia il miglior album della band o il piú sincero o chissá cosa, ma é un doppio CD che ascolto con piacere ancora oggi. Forse perché mi rimanda a vent’anni fa, ai giri in macchina (una Renault Doblo) a Perugia, lo smarrimento totale di trovarsi persi a Gorgo e l’Universitá come unico problema della vita.
Spero per voi che non vi stavate aspettando una recensione di un disco live dei Black Sabbath, uscito 20 anni fa e registrato quasi 50 anni fa. Se non avete idea di come suona(va)no i Sabbath all’epoca é completamente inutile che continuate a leggere questa webzine.
[Zeus]

Blackbraid – Blackbraid I (2022)

Mi sembra chiaro che, negli ultimi tempi, sto spostando il mio sguardo verso altre realtà del black metal. Non sempre, ma questa esplosione di band che si rifanno al concetto di frontiera, di West e di tutto il problema indiano mi interessa. Il motivo è riscontrabile nel fascino “perverso” di valutare un periodo storico in cui due mondi e due punti evolutivi si sono scontrati, causando il declino inevitabile del “mondo” più debole. Analizzare il West significa valutare il maglio calato dal cristianesimo sullo sciamanismo, significa prendere coscienza che i cattivi non sono quelli dipinti dalla storia, cioè dai vincitori, ma proprio l’esatto contrario. Ma, più di tutto, significa capire che nel Nord America si è svolto un confronto fra mondo industriale e mondo pre-rivolizionario, quasi medioevale se vogliamo. A parte le porcate delle Giubbe Blu e dei politici, disdicevoli ma connaturate ad una guerra, era prevedibile, e indiscutibile, che il mondo rurale, bucolico e “arretrato” degli Indiani dovesse soccombere alla potenza di fuoco, alle risorse e alla velocità del mondo industriale dei “visi pallidi”. Qua c’è materia sufficiente per un gruppo black metal, a mio avviso e i newyorkesi Blackbraid (one-man band capitanata da Sgah’gahsowáh) arrivano al punto con il loro debutto sulla lunga distanza: Blackbraid I. Se togliamo dall’equazione una sequela di titoli vagamente ridicoli e la sensazione che i flauti delle parti strumentali, seppur ben inseriti nel contesto acustico, sembrano presi direttamente dai pervuviani che “incantano” le folle sotto Natale, Blackbraid I mantiene quello che promette. I Blackbraid suonano alla UADA in versione squaw e/o immettono, nei brani più combattivi, anche una certa componente di blackned doom-death che mi ha ricordato, a più riprese, quanto stanno portando avanti gli ucraini 1914. Il feeling “western/indiano” non è in secondo piano come nei Wayferer, ma non ha neanche quel mix cristallino dei Vital Spirit. Sono più puliti dei Pan-American Native Front (ci vuole poco), ma non per questo mancano di aggressione, solo che giocano più col groove del death e con una serie di ottime melodie di stampo, penso si sia capito ormai, Uada. Bella la belligerante Sacandaga e, pur avendomi lasciato perplesso al primo ascolto visto il growl tombale che apre la canzone, anche i 10 minuti esatti di Prying Open The Jaws of Eternity. Le altre viaggiano bene, con i due lunghi strumentali a far “atmosfera” e gli altri due brani che pompano ritmo, cazzotti, buoni riff e in generale competenza nella scrittura – seppur in quanto a mera originalità, possiamo discutere un po’. Blackbraid I è un buon disco, di solido black melodico a trazione death, che poggia anche su un concept che funziona. L’atmosfera si sente e, prima o poi, la percussività delle canzoni e il feeling si fa largo e diventa infettiva, tanto che non è innaturale schiacciare più volte play e riascoltarsi il disco. Meritano una chance e, se Uada e scena similare sono il vostro pane quotidiano, allora nei Blackbraid troverete di che gioire.
[Zeus]

Ozzy Osbourne – Patient Number 9 (2022)

Non mi ero espresso favorevolmente su Ordinary Man e a distanza di un paio d’anni so che non ho sbagliato di moltissimo visto che non l’ho più riascoltato, quindi ho accolto Patient Number 9 con un misto di curiosità e di “timore”. Però Ozzy è Ozzy e non puoi non ascoltare un suo disco, non è una cosa che si fa, soprattutto se ti dichiari metallaro. E poi Patient Number 9 è l’equivalente di Supernatural di Santana, farcito com’è di ospitate di lusso che tirano un colpo al cerchio dei neofiti (Andrew Watt, anche se non so chi cazzo sia, Zakk Wylde, Josh Homme, Mike McCready dei Pearl Jam e il recentemente defunto Taylor Hawkins, ex Foo Fighters) e uno alla alla botte dei nostalgici (Clapton, Jeff Beck). E poi, per la prima volta da una vita, ecco che appare anche la mano sinistra di Dio a mettere il suo sigillo su due canzoni, fra cui Degradation Rules che ha dentro un semplicissimo ed efficacissimo riff coi baffi.
A parte le ospitate più o meno famose, Patient Number 9, rispetto a Ordinary Man, ha dentro canzoni che funzionano e che hanno tiro. Commerciali al massimo, orecchiabili e quasi bubblegum nell’accezione metal e quindi autenticamente Ozzy Osbourne, ma con molti chorus che funzionano, diversi brani che semplicemente non tirano a campare e che hanno il potere, anche a distanza di molti anni, di farmi esclamare: Cazzo, Ozzy, ancora una volta ce l’hai fatta a farmi ritornare adolescente.


E, credetemi, non mi copro gli occhi e non dimentico che la voce di Ozzy è riconoscibile sempre e comunque, ma è processata in maniera talmente evidente che ormai è quasi un trademark, e che il Madman canta su registri che mai gli sono appartenuti. Ma così è un disco di Mr. Osbourne: volenti o nolenti è cantato a livelli da sfidare i pipistrelli e mai e poi mai potrà avere tonalità come su 13 dei Sabbath. Ci sono dentro anche canzoni poco convincenti, per me condensate nella seconda parte del disco, e alcuni ritornelli acchiapponi ma che non mi convincono, pur avendo invece un pre-chorus che spacca (Nothing Feels Right). In termini strettamente musicali, Patient Number 9 è un disco classico post-2000 e forse il disco più classico che il Madman ha registrato da moltissimi anni a questa parte, forse addirittura da oltre 20 anni. Tutto il CD è un rincorrersi di citazioni più o meno esplicite, di rimandi al periodo d’oro con i Sabbath (l’armonica che spunta fuori qua e là, i riff di Iommi su Degradation Rules o No Escape From Now), poi ovviamente c’è Zakk Wylde che fornisce un buon punto d’incontro fra il periodo a cavallo fra ’80 e ’90 e poi ci sono, in ordine sparso, l’hard rock sporcato di blues, le cosacce più moderne e io ci sento anche odore di The Ultimate Sin su Dead and Gone.
Patient Number 9 è realmente un buon LP di Ozzy. Ha il suo timbro su tutta l’ora di musica che si porta appresso, sia in termini positivi sia per tutte le cose che rendono Ozzy… Ozzy e che mi fanno sospirare. Non ha cadute di stile, anzi è prodotto perfettamente e con una potenza che non pensavo di trovarci dentro, e le canzoni, quando funzionano al 100%, sono quelle che mi fanno ancora oggi brillare gli occhi quando butto su un CD di Ozzy e che, signori miei, mi fanno ricordare quanto son fortunato ad essere metallaro.
[Zeus]

Species – To Find Deliverance (2022)

Gli Species sono un trio polacco che non ha paura di osare. Hanno debuttato nel 2019 con un EP intitolato The Monument of Envy e arrivano al primo full-lenght con questo To Find Deliverance, proponendo una ambizioso mix di thrash metal e di prog rock. Presentandosi con una copertina terrificante ed un intro che ho trovato abbastanza inutile, Rare Signals, partono poi con quello che è stato anche il singolo che ha anticipato l’uscita dell’album. Parasite, questo il titolo, che con i suoi sei minuti abbondanti presenta già tutti gli elementi distintivi del sound della band, decidendo di partire proprio con l’elemento prog, con una parte iniziale strumentale che gioca su un’evoluzione di chitarra, per poi esplodere nella parte più thrash, che è anche quella prevalente.

Ma questo mix funziona? La risposta è: dipende. A volte sì, altre meno. Gli Species se la cavano in entrambi gli ambiti scelti, ma spesso, più che un unione fra generi il loro sembra più un alternarsi, un passare continuamente dal prog al thrash e viceversa senza mai creare un vero amalgama.

I tre sono dei bravi musicisti, questo è indubbio, la parte thrash è coinvolgente, ha dei bei riff, sa un po’ di Coroner, a volte di Slayer, altre di Anthrax, gli assoli di chitarra, ispirati ad entrambe le correnti, e le divagazioni strumentali di chiara matrice prog sono convincenti.

Negli Species intravedo qualcosa che mi fa venire in mente i Mastodon, con quei richiami ai King Crimson e al prog anni ‘70, ma secondo me devono ancora trovare la formula che faccia convivere in modo più omogeneo le loro due personalità, cosa che si intravede già un po’ in Thy Name is Slaughter, la sesta traccia. Da segnalare in chiusura dell’album Ex-Machina, lunghissima traccia di oltre undici minuti che risulta essere un gran bel trip.

Per concludere ribadisco che gli Species sono tre musicisti coi controcazzi e se darete un’ascoltata a To Find Deliverance troverete un sacco di spunti interessanti.

[Lenny Verga]