Alabama Thunderpussy – Fulton Hill (2004)

Ammettiamolo senza diventare rossi, preferiamo i dischi vecchi degli Alabama Thunderpussy, ma questo Fulton Hill lo teniamo nel cassetto perchè ha un feeling diverso rispetto ai primi quattro che portavano fieri la bandiera dell’incesto campagnolo e delle sbronze prese con il liquido del radiatore. Fulton Hill è più rock, più Lynyrd Skynyrd, più classico se vogliamo ma senza perdere di vista il suo essere figlio sporco e pieno di pidocchi del rock’n’roll.
Il cambio di singer non sposta troppo gli equilibri, non come un Leonardo Bonucci per intenderci, visto che John Weills esibisce un timbro scorticato dal sole, maschio quanto basta, corposo e sempre sul punto di essere in preda al delirium tremens e, quindi, in pieno stile ATP (e vagamente sulla scia di Throckmorton). Weills ha il solo difetto di essere arrivato su un disco dopo River City Revival che, da solo, mette sotto scacco tutta la discografia degli Alabama Thunderpussy (compreso l’ultimo Open Fire con Kyle Thomas degli Exhoder). Il secondo LP sotto Relapse Records sembra avere un po’ le polveri bagnate, con uno strumentale melodico e rilassato di oltre 4 minuti posto in apertura di disco (Such is Life) e poi si risveglia con uno scatto di nervi (R.R.C.C., molestata dal growl canino di Weills) e giù discorrendo fra pezzi con maggiore tiro (Wage Slave, Blasphemy, Sociopath Shitlist o Bear Beating, canzone che avrei visto bene anche su River City Revival) e altri più tranquilli (Three Stars e lo strappacuore Alone Again).
Non tutto il disco gira alla grande: Infested e Lunar Eclipse sono ATP sui generis e debolucce, mentre Do Not è buona musicalmente ma John, fino a quel momento a suo agio, non regge il passaggio all’acustico e tirar via il piede dal catarro non lo aiuta.
Chiude Fulton Hill la lunghissima Struggling For Balance, epica stoner sudista e sudata in equilibrio fra applausi e sfiancamento.
Nella discografia degli ATP, Fulton Hill ha una posizione ibrida e la mantiene anche a 20 anni di distanza. Unico album con John Weills e con questo suono, visto che Open Fire cambierà la rotta adattandosi di più all’ugola di Thomas, Fulton Hill ha meriti innegabili sia musicali sia d’affetto (nei ricordi è legato ai primi anni del 2000), mentre in termini di pura storia degli Alabama Thunderpussy è difficile trovargli una collocazione fissa. Si gioca il posto con Costellation e Staring at the Divine ma, e lo dico oggi e potrei cambiare idea domani, Fulton Hill ha dentro meno brani bomba, ma più costanza e pezzi che hanno il tiro. Come detto, potrei cambiare idea domani, intanto tenevi questo giudizio.

P.S: scopro oggi, da Metal Archives, che gli Alabama Thunderpussy si sono riuniti nel 2022 con la formazione di Open Fire. Per me, questa, è una buona notizia.
[Zeus]

Midnight – Hellish Expectations (2024)

Che effetto stupefacente quando metti sulla griglia la carne? Quel leggero sfrigolio, il grasso che saltella, il fumo che sale e che, immediatamente, porta alle narici il sapore della carne che poi assaggerai. Il trasformarsi dello zucchero della carne in crosta godereccia, il progressivo accartocciarsi del grasso, reso prima trasparente e poi via via più croccante e deciso.
In quest’epoca devo anche aggiungere, per non infastidire gli animi più delicati che leggono TheMurderInn, che potete tranquillamente sostuire la grigliata di carne con una di verdure se siete vegetariani o vegani. Se siete oltre, immaginatevi senza problemi un bel prato inglese dove brucare o raccogliere le more cadute dagli alberi il secondo giorno dopo la luna piena.
I Midnight di Hellish Expectations sono semplicemente soddisfacenti. Hanno quella capacità di arrivare dritti al punto senza doverti prima raccontare la storia dell’orso, anche perchè in poco più di 25 minuti, e 10 pezzi, saresti un vero idiota a farlo. E Athenar, idiota, non lo è. Anzi, ci ha visto giusto mischiando alla buona speed metal, Motörhead (Slave to the Blade), proto-black metal e, ovviamente, anche una bella dose di Venom, giusto per mettere nell’impasto anche quella dose di caciara che è fondamentale alla riuscita di un progetto come quello dei Midnight. Hellish Expectations è tutto questo: canzoni che non superano i 3 minuti neanche con la pistola puntata alla tempia, ritornelli che rimangono nell’orecchio e tempi belli sostenuti che fanno sbattere piede, testa e mettere giù la tavoletta della macchina. Ci aggiungo anche buone parti di chitarra, sia nella solista (non da tecnicismo, ma funziona), e una voce sguaiata che non guasta mai. Athenar sa che bisogna dosare il turbo e quindi dopo un inizio a rotta di collo, ecco che arriva la prima “più lenta”, Dungeon Lust (bel ritornello ma forse non uno dei miei pezzi preferiti) e poi di nuovo a tirar dritto e fondere gli amplificatori. Fra l’adrenalinica Nuclear Savior e Mercyless Slaughtor che puzza di Hellhammer e di Black Sabbath annata 1983 non saprei chi vince nella seconda metà del disco. Doom Death Desire rallenta e F.O.A.L sfotte e provoca i Darkthrone ed esibisce un rinfrescante piglio punkeggiante. Tipica canzone che ti immagini alla fine di un buon film e che ti fa uscire dal cinema con la sensazione che hai visto un capolavoro (potenza della musica).
C’è ben poco altro da dire su Hellish Expectations. Un disco che va sentito in auto, mentre grigliate o solamente per ricordarvi che non tutto il panorama musicale si ferma alla ricerca ossessiva dell’originalità; i Midnight sono lontani mille miglia dall’originalità, ma non toglie il fatto che sono fighi. Basta saper maneggiare bene la materia.
[Zeus]

Scarlet Anger – Martyr (2024)

Oggi The Murder Inn vi porta in Lussemburgo per la terza release degli Scarlet Anger, band attiva dal 2007 e dedita ad un thrash metal di stampo classico. In Martyr però non troverete solamente tupatupa ed accelerazioni perché i cinque sanno bene come combinare a questi elementi melodie, groove, rallentamenti e scrivere anche dei buoni riff. The Destroyer apre il disco nel più classico dei modi e fa il paio con No Time, e dalla seguente title track si notano strutture più ricercate, riff articolati e il tutto suona estremamente naturale. Un elemento che ho gradito molto è il timbro vocale di Joe Block, roco e graffiante, che mi ha ricordato Chris Boltendhal dei Grave Digger ai suoi tempi migliori. Si nota poi una sorta di epicità nella musica degli Scarlet Anger, e un alone oscuro che travalica il semplice thrash, un po’ come se il sound di Kreator e Testament si fondesse a quello dei Rage e dei sopracitati ‘Digger. Il risultato convince, perché è vario ma senza perdere di vista il focus del “metallo che spacca”, perché è comunque di thrash che stiamo parlando. Martyr è un album bilanciatissimo, sette pezzi per trentacinque minuti, e riesce mantenere costante la qualità del songwriting senza cedimenti. Le performance dei musicisti sono ottime e ascoltando e riascoltando i pezzi si notano tanti piccoli particolari in merito a ognuno. Gli Scarlet Anger sono stati una bella sorpresa e l’ascolto è consigliato a chiunque.

[Lenny Verga]

Granitader – Der Wald zwischen den Welten (2024)

Se aprendo questo articolo vi siete chiesti chi sono i Granitader, la domanda vi posso assicurare che è più che mai legittima. I tedeschi Granitader sono degli esordienti sulla lunga distanza e il primo vagito su disco è da segnalarsi nel 2023 con l’EP (Verfaulte Welt) e una bella manciata di singoli ad anticipare il qui presente, e attualissimo, Der Wald zwischen den Welten. Genere? Li metto nella macrocategoria del black metal. Una migliore definizione potrebbe essere dirvi che i tedeschi guardano alla parte atmospheric del black metal. Ci sono delle piccole aggiunte dal lato pagan, ma sono spunti, mentre la parte del leone è proprio l’atmospheric black metal, finalmente interpretato in maniera decente e non risultando una sciacquatura di piatti e di coglioni. I Granitader hanno l’amplificatore e lo usano, sia ringraziato Satana, dopo mille gruppi atmospheric che temevano quasi l’essere definiti black metal, i sassoni ne portano sul petto le medaglie.
I Granitader sono un gruppo black metal atmosferico e Der Wald zwischen den Welten ne è un esempio riuscitissimo. I riff prendono sia quando blandiscono sia quando aggrediscono (sentitevi quello portante sotto Geister des Nordens, che è un riffone tipicamente hard rock), l’uso sapiente delle melodie che permette ai brani di non stufare neanche dopo l’ennesimo ascolto e l’afflato folk sono tutti elementi che devono essere sottolineati di questo LP. Per quanto riguarda l’elemento folk spendo una parola in più. Il tema centrale del disco dovrebbe essere la mitologia nordica e/o la natura, ma voi date in mano ai tedeschi l’elemento folk e, 9 volte su 10, vi tireranno fuori qualcosa che rimanda al romanticismo tedesco. L’elemento nordico c’è, ma è filtrato da una sensibilità tutta votata al Weltschmerz tedesco, a quella sensazione di inevitabilità e di vaga malinconia autunnale che piglia i germanici ogni pié sospinto.
Togliendo dal conto le due tracce strumentali (Intro e Outro – carine, cinematografiche e tipicamente di genere), le 9 canzoni del debutto non cedono a filler, non mostrano il fianco se non in termini di qualche pecca di gioventù (i tedeschi usano intro lenta, esplosione black, outro lenta a ripetizione) e viaggiano benissimo per i quasi 45 minuti di durata. Le vocals si dividono fra scream e parti in clean (chorus – Varus) e l’utilizzo di strumenti particolari (lo scacciapensieri sulla già citata Geister des Nordens) li mettono sui nostri radar, ma è il songwriting ottimo che mi fa pensare che Der Wald zwischen den Welten è potenzialmente un’uscita top di questo 2024.
La Purity Through Fire, spesso sotto i riflettori per la natura politicizzata delle proprie band, ha fatto un colpo gobbo iscrivendoli nel proprio catalogo. Ritardare ancora l’ascolto di Der Wald zwischen den Welten è un peccato originale, quindi sbrigatevi a metterlo nello stereo e poi vantatevi con gli amici della scoperta.
[Zeus]

Arcane Tales – Until Where the Northern Lights Reign (2024)

Che cosa posso dire degli Arcane Tales che non abbia già detto in passato? La creatura di Luigi Soranno, che è una one man band, è tra le migliori che potete trovare in ambito power metal sinfonico. A due anni di distanza dal precedente Steel, Fire and Magic torna con Until Where The Northern Lights Reign, e lo fa nel migliore dei modi. Il nuovo album è carico, ispirato e quella contaminazione estrema che già nei lavori precedenti avevo apprezzato, qui si fa ancora più marcata in The Dark Portals of Agony, in cui la voce in screaming che si alterna a quella in clean sopra un epico tappeto di chitarre e tastiere crea situazioni che riportano alla mente i Bal-Sagoth.

Il lavoro di Soranno alle chitarre è sempre notevole, è una fucina di riff, assoli, linee melodiche e quando arrivano le parti in cui è lo strumentale a prevalere, non annoia ne stucca perché non è mai fine a se stesso. Porto come esempio Last Shàranworld’s Hope, ma non è l’unico caso, dove gli intrecci tra chitarra e tastiera sono molto coinvolgenti. I brani sono come sempre compatti nella durata, ci sono poi un ballad ben fatta, We Will Meet Again, e una suite più lunga posta in chiusura, la title track. Tutto come da copione, tutto ben realizzato. Una menzione merita anche l’ottima prestazione vocale. Non so che altro dire per non diventare ripetitivo, la qualità del lavoro di Soranno è sempre alta e il nome degli Arcane Tales spero goda di considerazione sempre maggiore tra gli appassionati di queste sonorità.

[Lenny Verga]

Vent’anni dopo. 1349 – Beyond the Apocalypse (2004)

Cosa avevo detto l’ultima volta a proposito dei 1349? Che sono una band Frost-centrica e che producono musica tutto sommato mediocre. Liberation aveva anche il problema di essere prodotto da schifo, cosa che non gli faceva guadagnare punti agli occhi di Satana, mentre Beyond the Apocalypse del 2004 è prodotto meglio, anche se per ovvie ragioni Frost fa la parte del leone andando a coprire la voce di Ravn (lasciato spesso nelle retrovie) e contendendosi l’occhio di bue con le due chitarre. Ma diciamocelo realmente: chi cazzo se ne frega del lavoro di Tjalve e Archaon mentre c’è il batterista dei Satyricon che smembra la batteria con una foga assurda? Anche perchè, come detto qualche anno fa, i due chitarristi sono bravi sì, ma il colpo di genio proprio non fa parte delle loro corde. Riff da ricordare ce ne sono, pochi ma ce ne sono, mentre il resto è scolastico e telefonato, così che non mi lasciano spazio a nessun complimento sentito e vibrante. Per quelle tracce che funzionano (verso la fine disco si trovano forse i pezzi che più colpiscono), riuscendo in qualche modo a far combaciare la violenza e il tentativo testardo di far sentire Satana, ce ne sono altrettante che se non sono al livello di filler, sono semplicemente non all’altezza. Pistola alla testa, se dovessi cercare una canzone che forse si tira fuori dal coro, lasciando per un momento il blast beat furioso e su velocità elevate, ecco Singer of Strange Song. Frost non riesce realmente a tirare il freno a mano, visto che si produce in un blast beat più lento prima di andare a briglia sciolta e distruggere il drum-kit. Canzone non male, anche se il riff e qualche melodia mi risultano già sentiti (al momento in cui scrivo non mi viene in mente quale canzone, ma sicuramente ci arrivo… forse una Mother North sghemba?). Pur con le dovute cautele, è di certo una delle migliori del lotto, l’unica canzone che almeno eleva dalla cintola in su oltre al suono black metal che ti aspetti da una band di inizio 2000.
Forse non così brutto come Liberation, ma Beyond the Apocalypse non è di certo quel capolavoro che molti vorrebbero spacciarvi. Un po’ come i 1349 non sono quella grandissima band che molti adorano (anche se hanno Frost dalla loro). A tutti gli effetti, rispetta le aspettative; qualunque esse siano.
La mia domanda è: questo è realmente un complimento?
[Zeus]


Pearl Jam – Dark Matter (2024)

Tratto da una storia vera (anche se l’ho adattata, perdonatemi).

Esce il nuovo dei Pearl Jam e io, da nato negli anni ’80, non posso che farmi prendere da un po’ di sana e naturale curiosità. Ci sono nato col grunge e i Pearl Jam erano, allora, tanta roba. Il problema è già in quel verbo, quel temibilissimo erano che mette l’ansia e la cacarella a tutti i puri di spirito. Erano. Suona fatalista e definitivo, come se non ci fosse una reale redenzione, un potenziale happy ending. E questo prima di ascoltarlo, prima di vedere cosa hanno prodotto nel loro 12° album in studio, chiamato Dark Matter. Lo sento più volte nel corso dei giorni e già un’idea mette radici nel mio cervello: Dark Matter ha la confezione ma è nullità ovattata. Non ha nessuna briciola di quella vibrante vitalità che percorreva i dischi passati. Perchè allora approcciarlo se è già da anni che la band di Seattle non incide qualcosa di realmente buono, è nostalgia? Il precedente Gigaton quante volte l’ho ascoltato post-recensione? Zero. Dopo la recensione è morto dentro la musica scaricata su Spotify. Quello era un disco da tromboni ormai suonati, quelli che hanno un paio di stagioni da ribelli e che adesso giocano a backgammon sorseggiando tè e raccontandoti la vita spericolata mentre te, con i coglioni girati da affitti/mutui, casini, lavoro e molto altro, devi afferrare la vita morsicandola alla carotide. Questi sono i Pearl Jam, lo zio rompicoglioni che amavi e che ha incominciato a pisciare fuori dal vaso. Anticipato da dichiarazioni totalmente innovative e sorprendenti come “è il miglior disco che abbiamo mai scritto” (Eddie Vedder) ed “è [un disco] più pesante di quanto si possa immaginare” (Mike McCready) capisci che sei arrivato al punto da poterli invitare a Sanremo come band di passaggio. Qualità certo, ma siamo certi che è quello che vogliamo dai Pearl Jam? Siamo realmente convinti che questa pochezza di ottimo gusto musicale ma priva di sentimento sia il futuro che vogliamo di una delle band di punta degli anni ’90 del rock alternativo? Io no, non lo accetto. Non posso tollerare canzonette noiose come React, Respond (il chorus è irritante) e neanche i mezzi plagi a Bruce Springsteen con Wreckage (il finale è da galera assicurata, ma non è l’unica). Won’t Tell potrebbe essere la colonna sonora di una delle serie TV degli anni ’90 e da qua si cade verso canzoni che non ricorderei neanche a volerlo.
I singoli hanno un pizzico di verve (se qualcuno mi riesce a trovare a cosa assomiglia l’apertura di Dark Matter me lo dica), tanto da sembrare il trailer dei film-pacco che sembrano divertenti e invece ti frega perchè i malefici della casa di produzione hanno fatto il collage di quattro battute e il resto della pellicola è una rottura di palle invereconda.
Arrivando verso la fine, perchè comunque Vedder e soci sono intelligenti da tenere il minutaggio ben sotto l’ora, si arriva al classico pezzo giovanilistico che sembra aver preso affitto nei dischi dei Pearl Jam da Lighning Bolt (Upper Hand) e si guarda il traguardo. Something Special è la canzonetta alternative che andava di moda nei primi 2000, mentre il pezzo che forse avrebbe meritato di più si trova all’undicesima, e finale, posizione: Setting Sun. La canzone da suonare in spiaggia con gli amici e tipicamente Pearl Jam.
E poi volete dirmi che dobbiamo salvare i Pearl Jam a tutti i costi? Come ha detto il truce Lord Baffon II sentendo che volevo recensire Dark Matter: ma perchè tutti reputano i Maneskin una merda, mentre i Pearl Jam bisogna salvarli sempre? Perchè loro sono intoccabili?
La domanda non è peregrina, perchè? Risposta, i primi dischi. Di certo un buon punto. Ma poi cosa hanno prodotto di così eccezionale? Sono anni e anni che non fanno uscire un LP che realmente si possa dire capace di essere l’erede di una tradizione e avente una dignità vera da Pearl Jam (anche invecchiati). Lord Baffon II arriva a definire Alive una canzonetta da cantare in spiaggia. Io non sono d’accordo, i primi due/tre LP erano tanta cosa, poi son scoppiati. Il fatto è che sui Maneskin si spala letame (a ragione) perchè sono nati con il niente, ma rispecchiano perfettamente perfettamente quello che la gente vuole, quello che siamo e vogliamo dalla musica (vogliamo inteso come pubblico generalista). All’estero vengono adorati perchè sono italiani, solecuoreamore, e non gliene frega una mazza di quello che suonano. Sono delle brave scimmiette ammaetrate che fanno lo show, che tengono in piedi il circo. Stanno riempiendo un buco enorme, un voragine profonda e tragica, e lo riempiranno finchè un giorno qualcuno in un qualsiasi piano di una major non deciderà che l’essere Maneskin non è più trendy e finiranno male come è naturale che sia. Il problema, cari miei, è che questo schifo di buco, di vuoto musicale, è opera anche dell’assenza di band come i Pearl Jam. Potrei descriverlo come tradimento o potrei descriverlo come diventare adulti. Ma, in effetti, perchè dovresti essere un traditore se già da trent’anni a questa parte stai tirando acqua al mulino di chi, della barricata, sta dall’altra parte?
[Zeus]


Homecoming. Iron Monkey – Spleen & Goad (2024)

Gli Iron Monkey, per me, sono come l’Homecoming nel football universitario americano. Per chi non conoscesse questa pratica, prendo la prima voce di Google: Homecoming is a school-spirit tradition in many American high schools that combines sports, school spirit, and social activities into a week-long celebration culminating in a football game and dance. In soldoni, i vecchi alunni ritornano “a casa” e festeggiano insieme alle matricole e agli studenti in corso. In America è spesso associato ad un qualsiasi sport, quindi l’Homecoming diventa un evento enorme in cui i “vecchi” vengono trattati quasi come divi e si celebra il college/università e lo sport. Una sorta di riunione di classe, solo con molto più caos. Molto più caos. Però è una sensazione, quel periodo dell’anno che tutti aspettano per ritornare a vedere gli altri alunni, rivedere i professori e/o calcare di nuovo il rettangolo di gioco con i vecchi compagni di squadra (uguale che sport sia). Io le odio le riunioni di classe, ma il sentimento di ritorno a casa festeggiato e celebrato è anche interessante.
Per me gli Iron Monkey sono questo, il ritorno dei vecchi alunni, acclamati, ricordati nelle leggende dei più grandi e, se vogliamo mettere un po’ di epica in questo scritto, trattati come semidei dai poveri mortali. Nel periodo compreso il 1997 e il 2002, anno della morte dello storico frontman Johnny Morrow, la band inglese era semplicemente enorme, almeno per me. Il debutto era un disco da esaltare, il suo seguito (Our Problem) è semplicemente perfetto e se vi siete persi l’EP We’ve Learned Nothing peste vi colga. Un trittico semplicemente perfetto. Poi la morte, il lutto e il silenzio fino alla reunion e il ritorno in campo con 9-13 del 2017, bello ma non bellissimo. Anche perchè raggiungere il mito è difficile e a volare troppo in alto poi ci si bruciano le penne; per delucidazioni chiedere a Icaro. Gli Iron Monkey 2.0 lasciano stemperare all’aperto la carcassa e imputridire ancora di più i riff per fornire, a sette anni di distanza, il successore di 9-13. La formazione è per 2/3 la stessa, solo Brigga (batteria) viene sostituito dall’ex Widows Ze Big, il cui lavoro è buono ma non posso certo metterlo dentro i primi 10 batteristi del secolo. Potrei descriverlo come funzionale il suo modo di suonare e, per la prima volta, non è neanche un insulto, visto che fa quello che deve fare e lo fa senza pisciare fuori dal vaso. Jim Rushby si occupa ancora di chitarra e mette il suo growl canino al servizio degli Iron Monkey (come era successo nel 2017) e Dean va sulla seconda chitarra. Il basso non viene nominato (ma c’è, si senta Off Switch), ma non per questo il muro di suono viene meno. Anzi, la potenza che ne esce da Spleen & Goad è l’equivalente di un autoarticolato che cerca di investirti, con riff Sabbathiani misti hardcore e una virulenza così manisfesta da essere contagiosa come la peste suina. Il problema è che Spleen & Goad inizia fortissimo, picchiando duro con il duo Misanthropizer e Concrete Shock ma poi, pur non andando mai nel brutto, sembra concentrarsi ossessivamente sul binomio muro sonoro + violenza e meno sul fornire più emozioni. Cosa che gli LP del biennio ’97-’98 facevano senza problemi. Pesanti sì, ma capaci di allargare il gioco anche sui ricevitori esterni e non tentando il tutto per tutto solo con il gioco di corsa e sfondamento (questo per rimanere in ambito football americano). Spleen & Goad è piombo puro, ma invita all’ascolto con meno efficacia rispetto ad Our Problem. Soffre di qualche calo fisiologico, ad es. la lunga Off Switch. Questa è buona e da proprio l’immagine di un tizio sovrappeso che si muove al tuo inseguimento trascinando un’ascia sul pavimento sporco, ma 7 minuti e mezzo sono realmente tanti. Il riff di The Gurges richiama un po’ quello di Disturbing the Priest dei Black Sabbath e ti assale l’angoscia visto che lo reiterano fino allo sfinimento, ma anche qua i 7 minuti abbondanti sono realmente lunghi da digerire per troppe volte di seguito.
Non mancano le accelerazioni, quei momenti tipicamente Iron Monkey che piacciono e in cui sento, e ricordo, il sapore del vomito dopo una bevuta oscena. Non è un ricordo piacevole, ma quanto eri un Dio la sera prima? Quindi, in fin dei conti, son ricordi belli.
Nel 2024 gli Iron Monkey cercano di ritornare un po’ indietro con il suono (la già citata Misanthropizer è forse quella che più di tutte fa nostalgia, forse anche perchè Jim usa un timbro leggermente diverso), ma è un prodotto nuovo e testardamente guarda avanti nel tentativo di definire chiaramente: noi siamo gli Iron Monkey, lo eravamo e lo saremo. Solo che adesso sono altro, fisiologicamente altro e Spleen & Goad, temo, sarà uno di quei dischi che ascolterò per la recensione e forse un paio di volte l’anno per poi metterlo a prendere polvere e guardare usurare quegli LP degli Iron Monkey che, anche a oltre 20 anni di distanza, sono realmente Homecoming. E sono realmente dei semidei.
[Zeus]

Mayhem – Chimera (2004)

Visto con gli occhi del 2024, Chimera aveva tutte le caratteristiche per essere l’ultimo disco di una formazione in evoluzione. Nel 2004, invece, non lo si sapeva ancora che sarebbe stato l’ultimo LP con Maniac alla voce (poi uscito/buttato fuori dalla band a causa del suo enorme problema con l’alcolismo) e il penultimo disco con Blasphemer alla chitarra, poi rimpiazzato dalla coppia Teloch-Ghul a partire da Esoteric Warfare (coppia che dura ancora oggi, per chi di voi non è avvezzo a consultare Metal Archives con la stessa frequenza con cui si guarda Transfermarkt – ok, questa è una perversione tutta mia).
Ah. ovviamente non si può dimenticare il rientro di Attila Csihar alla voce, quindi un passo indietro verso il 1994 e uno verso il 2010. Concetto poi confermato con Daemon del 2019.
Chimera è la naturale prosecuzione di Grand Declaration of War, pur non essendone il naturale follower. Diciamo che è l’evoluzione in mantenimento, visto che ci sono elementi che ritornano ed altri che, forse a causa di un cambio di rotta, di pensiero o di idee, non vengono più riproposti. L’evoluzione porta i Mayhem a lasciare per strada le composizioni troppo complesse, affidandosi invece a strutture più “dirette”, pur mantenendo un gelo e una “roboticità” (soprattutto nel drumming di Hellhammer) che sono dirette conseguenze del disco precedente. Come detto, un colpo al cerchio e uno alla botte. Ma in questo caso, e specificamente nel 2004, è qualcosa di organico e non forzato. Maniac ci rende una delle sue performance più estreme, il disagio estremo, l’odio palpabile della sua voce è senza dubbio uno dei fattori trascinanti di Chimera, che parte vomitando di tutto e di più con Whore e poi prosegue con la carneficina. Almeno finchè non decide di rallentare con My Death, non l’unico episodio in Chimera a non andare a tavoletta.
Rispetto al classico approccio più “basic e diretto” (nel senso positivo del termine), i Mayhem del 2004 decisero di mostrare al pubblico che black metal non significa solo grim&frostbitten, non significa solo velocità e riff palla lunga e pedalare, ma anche capacità tecnica. E dentro Chimera si nota un deciso passo avanti verso quello che si potrebbe quasi definire in maniera blasfema technical black metal. Intendiamoci subito, i Mayhem rimangono lontani dalle sterilità del termine “tecnico”, ma fanno unicamente sfoggio di bravura nella composizione e allo strumento finalizzata alla creazione di una sensazione di rabbia, angoscia e quant’altro ci si aspetta dalla band norvegese.
Anche a 20 anni di distanza non sento filler e, anzi, le canzoni crescono con il passare degli ascolti, facendo ritornare a galla ricordi ed emozioni. Il finale strumentale di You Must Fall, se preso bene, mi colpisce allo stomaco senza essere lontanamente violento o chissà che cosa. Ma tutti i brani di Chimera riuscivano (e riescono) a dimostrare che i Mayhem erano vivi e vegeti. E se un LP come quello del 2004 si chiude con i 7 minuti della title-track (per me un brano ottimo), allora è difficile anche solamente pensare di criticare il terzo full-length di Blasphemer & Co.
Ma, forse, questa è solo la mia opinione e molti troveranno le stesse emozioni nel successivo Ordo ad Chao del 2007, per me LP di minore importanza rispetto a questo qua.
[Zeus]

Semplicemente Orange Goblin – Thieving from the House of God (2004)

Il percorso evolutivo degli Orange Goblin è talmente lampante da non necessitare di nessun tipo di spiegazione varia ed eventuale. Il cambio di rotta è sotto gli occhi (o nelle orecchie) di tutti e la differenza fra Frequency from Planet Ten e questo Thieving from the House of God è la stessa che passa tra Terra e Marte. Entrambi pianeti nel sistema solare, ma niente a che vedere uno con l’altro. Certo, il trademark che passa da album ad album è marchiato a fuoco, che sia la voce roca e maschia di Ben Ward o le chitarre del duo Hoare – O’Malley. Si sente che è la stessa band, ma le differenze ci sono, tanto era stoner psichedelico il primo, quanto ha l’approccio da biker incazzoso questo. La mutazione definitiva aveva incominciato a prendere forma in The Big Black, ma il vero salto dall’altra parte della barricata dello stoner l’avevano fatto nel 2002 con Coup de Grace. Qua si era sentito l’alito vitale dei Motörhead dare fuoco e fiamme alla benzina della sezione ritmica e mettere pepe nelle dita dei chitarristi. Ben Ward smette del tutto di cercare la via fattona al Nirvana e approccia la materia alla maniera di un novello Bud Spencer: due sberloni e via. E così, forse, deve essere. Da questo momento in avanti, infatti, gli Orange Goblin non torneranno più indietro. Il 2004, e Thieving from the House of God, è il punto di partenza di quella che è, idealmente, la seconda vita della band inglese.
Nel precedente compleanno, dicasi Coup de Grace del 2002, avevo accennato che Hoare & Co. avevano scritto un LP turgido e muscolare, ma non avevano il pezzo che definiva il disco. In Thieving from the House of God lo troviamo esattamente alla prima posizione: Some You Win, Some You Lose. Orecchiabile, con il ritornello giusto e con le caratteristiche da brano live… e infatti nelle scalette dei concerti c’è e non potrebbe essere altrimenti. Poi ci sono una serie di riff che macinano chilometri e gasolio tipo Round Up The Horses (caricato di distorsione a più non posso) o quelli che ricordano un po’ di più il pre-2004 (One Room, One Axe, One Outcome prima di sfociare in un turbinio di gas di scarico e sgommate sull’asfalto caldo). Senza dover fare un track-by-track, posso inserire nelle novità assolute la voce femminile su Black Egg e direi che per una band che fa della costanza e di un certo modo di intendere il rock/metal il trademark è già un’evoluzione notevole. Chiude tutto Crown of Locusts, che saltella “allegra” fra riffoni stoner e quelli con i baffoni, giusto per chiarire chi è la stella polare.
Thieving from the House of God è un disco maturo, grezzo e sudato quanto basta e dal tipico taglio Orange Goblin. Cosa che, per me, è un segnale incoraggiante: certe band devono fare quello che sanno fare e gli Orange Goblin lo sanno fare bene. Non sarà colmo di possibili hit e non è di certo un capolavoro, ma nel 2004 e al quinto LP in studio, Ben Ward e compagnia non accennano ad arretrare e mettono un punto importante nella loro evoluzione musicale.
[Zeus]