
C’è un binomio inscindibile nella mente di moltissimi rocker e questo riporta: Bruce Springsteen più la E Street Band. Sono parole che stanno a braccetto alla perfezione, come la birra e una giornata calda o il panino con la mortadella.
Il Boss, nel 1980/1990, era una creatura inquieta, ormai arrivato al successo grazie ad una serie di dischi che dire memorabili è poco; il problema sorse quando il mondo dei “grandi” batte un colpo e Bruce si fece lusingaere da mille idee, progetti e chissà che cosa. Risultato? La fine della E Street Band e, di conseguenza, l’uso di session man per la registrazione dei suoi dischi.
Da questo punto in poi arrivarono gli alti e i bassi della sua discografia (fino ad allora a prova di proiettile), anche se nel 1990 esce The Ghost of Tom Joad, la cui title-track mi emoziona ogni volta.
Forse ci voleva la separazione dalla E Street Band per far ritrovare il brio al binomio, perché nel 1990 non sarà né la prima né l’ultima volta che Springsteen uscirà da solista per comunicare il suo messaggio, ma la qualità dei dischi usciti è sensibilmente diversa a quanto uscirà post-reunion.
Nel 2000 si sente aria nuova, forse il Boss prende consapevolezza della sua situazione o è insoddisfatto, ma tant’è e da qui nasce la reunion. Dopo 11 anni di separazione, il Boss ritorna a calcare i palchi di tutto il mondo con la sua band, da cui prenderà spunto questo Lp, Live in New York City, e poi il successivo The Rising del 2002.
Live in New York City è un disco grande, eccessivo e pieno di vita, come ti aspetti i concerti del Boss. Sono due ore di musica che coprono il passato della sua produzione discografica, ma anche il futuro: American Skin (41 Shot) e Land of Hopes and Dreams non usciranno che una decina d’anni dopo questa serie di concerti.
Come spesso succede dal vivo, le versioni proposte variano, dando l’accento rock a composizioni originariamente eseguite come pezzi folk (Atlantic City e Youngstown), versioni crepuscolari di alcuni classici (The River, eseguita solo con pianoforte e sassofono), l’inclusione di If I Should Fall Behind da Lucky Town e poi tutto il carosello di citazioni che mette all’interno di Tenth Avenue Freeze-Out. Questo è quello che ci si aspetta da Bruce Springsteen, almeno nell’accezione rock.
Il Boss è un cantautore a cui sta stretto il termine rock’n’roll e spesso, per raccontare le sue storie, si getta nel folk e quindi escono Nebraska, il già citato The Ghost of Tom Joad e lo spettacolo Springsteen a Broadway uscito qualche anno fa.
Mi sembrerebbe di farvi un danno a raccontare cosa significa vedere un concerto di Bruce Springsteen, la sensazione di partecipazione, di essere all’interno di un rito collettivo che è lontano anni luce da ogni negatività, ma che ispira unicamente gioia e voglia di vivere.
Quello che mi stupisce ogni volta è che mi esalto per canzoni che hanno una componente profondamente personale e che, con il classico twist di cui sono capaci solo i grandi, riesce a diventare generale e spesso adattabile alla propria situazione.
Non so quanti di voi si prenderanno il tempo di sentirsi questo LP per intero, ma se potete fatelo. Non importa se fermate la vostra vita e lo ascoltate con quel giusto pizzico di riverenza che si riserva ad un artista che ha contribuito a scrivere pagine di rock o se mettete Live in New York City come sottofondo.
L’importante è che il ventennale di questo disco non passi inosservato, perché è nel 2000/2001 che ci viene restituito il Boss e, con lui, la E Street Band. E da quel momento non si è più fermato, registrando dischi con una cadenza impressionante (uno ogni 2/3 anni), forse non sempre di eccellente qualità, ma sicuramente spanne sopra a certi prodotti riprovevoli usciti nel primo e secondo decennio del 2000.
[Zeus]