Mayhem – Chimera (2004)

Visto con gli occhi del 2024, Chimera aveva tutte le caratteristiche per essere l’ultimo disco di una formazione in evoluzione. Nel 2004, invece, non lo si sapeva ancora che sarebbe stato l’ultimo LP con Maniac alla voce (poi uscito/buttato fuori dalla band a causa del suo enorme problema con l’alcolismo) e il penultimo disco con Blasphemer alla chitarra, poi rimpiazzato dalla coppia Teloch-Ghul a partire da Esoteric Warfare (coppia che dura ancora oggi, per chi di voi non è avvezzo a consultare Metal Archives con la stessa frequenza con cui si guarda Transfermarkt – ok, questa è una perversione tutta mia).
Ah. ovviamente non si può dimenticare il rientro di Attila Csihar alla voce, quindi un passo indietro verso il 1994 e uno verso il 2010. Concetto poi confermato con Daemon del 2019.
Chimera è la naturale prosecuzione di Grand Declaration of War, pur non essendone il naturale follower. Diciamo che è l’evoluzione in mantenimento, visto che ci sono elementi che ritornano ed altri che, forse a causa di un cambio di rotta, di pensiero o di idee, non vengono più riproposti. L’evoluzione porta i Mayhem a lasciare per strada le composizioni troppo complesse, affidandosi invece a strutture più “dirette”, pur mantenendo un gelo e una “roboticità” (soprattutto nel drumming di Hellhammer) che sono dirette conseguenze del disco precedente. Come detto, un colpo al cerchio e uno alla botte. Ma in questo caso, e specificamente nel 2004, è qualcosa di organico e non forzato. Maniac ci rende una delle sue performance più estreme, il disagio estremo, l’odio palpabile della sua voce è senza dubbio uno dei fattori trascinanti di Chimera, che parte vomitando di tutto e di più con Whore e poi prosegue con la carneficina. Almeno finchè non decide di rallentare con My Death, non l’unico episodio in Chimera a non andare a tavoletta.
Rispetto al classico approccio più “basic e diretto” (nel senso positivo del termine), i Mayhem del 2004 decisero di mostrare al pubblico che black metal non significa solo grim&frostbitten, non significa solo velocità e riff palla lunga e pedalare, ma anche capacità tecnica. E dentro Chimera si nota un deciso passo avanti verso quello che si potrebbe quasi definire in maniera blasfema technical black metal. Intendiamoci subito, i Mayhem rimangono lontani dalle sterilità del termine “tecnico”, ma fanno unicamente sfoggio di bravura nella composizione e allo strumento finalizzata alla creazione di una sensazione di rabbia, angoscia e quant’altro ci si aspetta dalla band norvegese.
Anche a 20 anni di distanza non sento filler e, anzi, le canzoni crescono con il passare degli ascolti, facendo ritornare a galla ricordi ed emozioni. Il finale strumentale di You Must Fall, se preso bene, mi colpisce allo stomaco senza essere lontanamente violento o chissà che cosa. Ma tutti i brani di Chimera riuscivano (e riescono) a dimostrare che i Mayhem erano vivi e vegeti. E se un LP come quello del 2004 si chiude con i 7 minuti della title-track (per me un brano ottimo), allora è difficile anche solamente pensare di criticare il terzo full-length di Blasphemer & Co.
Ma, forse, questa è solo la mia opinione e molti troveranno le stesse emozioni nel successivo Ordo ad Chao del 2007, per me LP di minore importanza rispetto a questo qua.
[Zeus]

Semplicemente Orange Goblin – Thieving from the House of God (2004)

Il percorso evolutivo degli Orange Goblin è talmente lampante da non necessitare di nessun tipo di spiegazione varia ed eventuale. Il cambio di rotta è sotto gli occhi (o nelle orecchie) di tutti e la differenza fra Frequency from Planet Ten e questo Thieving from the House of God è la stessa che passa tra Terra e Marte. Entrambi pianeti nel sistema solare, ma niente a che vedere uno con l’altro. Certo, il trademark che passa da album ad album è marchiato a fuoco, che sia la voce roca e maschia di Ben Ward o le chitarre del duo Hoare – O’Malley. Si sente che è la stessa band, ma le differenze ci sono, tanto era stoner psichedelico il primo, quanto ha l’approccio da biker incazzoso questo. La mutazione definitiva aveva incominciato a prendere forma in The Big Black, ma il vero salto dall’altra parte della barricata dello stoner l’avevano fatto nel 2002 con Coup de Grace. Qua si era sentito l’alito vitale dei Motörhead dare fuoco e fiamme alla benzina della sezione ritmica e mettere pepe nelle dita dei chitarristi. Ben Ward smette del tutto di cercare la via fattona al Nirvana e approccia la materia alla maniera di un novello Bud Spencer: due sberloni e via. E così, forse, deve essere. Da questo momento in avanti, infatti, gli Orange Goblin non torneranno più indietro. Il 2004, e Thieving from the House of God, è il punto di partenza di quella che è, idealmente, la seconda vita della band inglese.
Nel precedente compleanno, dicasi Coup de Grace del 2002, avevo accennato che Hoare & Co. avevano scritto un LP turgido e muscolare, ma non avevano il pezzo che definiva il disco. In Thieving from the House of God lo troviamo esattamente alla prima posizione: Some You Win, Some You Lose. Orecchiabile, con il ritornello giusto e con le caratteristiche da brano live… e infatti nelle scalette dei concerti c’è e non potrebbe essere altrimenti. Poi ci sono una serie di riff che macinano chilometri e gasolio tipo Round Up The Horses (caricato di distorsione a più non posso) o quelli che ricordano un po’ di più il pre-2004 (One Room, One Axe, One Outcome prima di sfociare in un turbinio di gas di scarico e sgommate sull’asfalto caldo). Senza dover fare un track-by-track, posso inserire nelle novità assolute la voce femminile su Black Egg e direi che per una band che fa della costanza e di un certo modo di intendere il rock/metal il trademark è già un’evoluzione notevole. Chiude tutto Crown of Locusts, che saltella “allegra” fra riffoni stoner e quelli con i baffoni, giusto per chiarire chi è la stella polare.
Thieving from the House of God è un disco maturo, grezzo e sudato quanto basta e dal tipico taglio Orange Goblin. Cosa che, per me, è un segnale incoraggiante: certe band devono fare quello che sanno fare e gli Orange Goblin lo sanno fare bene. Non sarà colmo di possibili hit e non è di certo un capolavoro, ma nel 2004 e al quinto LP in studio, Ben Ward e compagnia non accennano ad arretrare e mettono un punto importante nella loro evoluzione musicale.
[Zeus]

Umbra Noctis – Asylum (2024)

Gli Umbra Noctis sono uno dei tanti portabandiera del black metal tricolore, coi loro venti anni circa di attività. Certamente, lo dico subito, questo nuovo “Asylum” è un passo avanti rispetto al precedente “Via Mala”, che presentava una band un po’ appannata a livello sia di produzione che di songwriting.
In questo nuovo capitolo la band decide di tornare proprio all’antico concetto di black metal e ad una produzione grezza ma efficace, in quanto ogni strumento riesce a sentirsi bene, soprattutto le chitarre che hanno un’ottima distorsione e macinano riff su riff abbastanza aggressivi, salvo spesso arricchirsi di una vena depressiva (ma non depressive) che viene esaltata da arpeggi anche dissonanti o comunque malinconici. I pezzi durano il giusto e quindi non annoiano, salvo la lunga “Green Eyes” che cerca di condensare tutte le anime della band in un pezzo davvero molto bello e maturo.
Bello anche l’utilizzo del growl da parte di Filippo Magri, ma in generale è proprio la cosa principale che funziona, ovvero il songwriting. “Asylum” è un disco coerente col black metal e cerca di omaggiare anche realtà della stessa Italia come ad esempio gli Spite Extreme Wing, ma che spesso potrebbe ricordare musicalmente anche Burzum, Darkthrone e qualcosa della scena finlandese con riferimenti ad Horna e Sargeist. Un album black metal in toto, senza mezzse misure, molto ben realizzato.
Prendere o lasciare, ma se io fossi un amante del black metal più genuino una chance gliela darei.

[American Beauty]

Poorhouse – XII (2024)

Gli intenti dei polacchi Poorhouse sono lodevoli: non essere categorizzati in n nessun sottogenere del metal e far sentire all’ascoltatore qualcosa di fuori dall’ordinario e svuotato da qualsiasi complessità artificiale. Ma occhio, ragazzi miei, a non fare troppi casini perché diciamolo già, il risultato non convince del tutto. XII, a dispetto del titolo, è il primo album della band e presenta luci e ombre fin da subito. Partiamo dalla prima traccia, Asylum In Your Head: c’è il violoncello, che personalmente ho apprezzato, un basso virtuoso (costante in quasi tutto l’album) che diventa presto ingombrante, dei riff di chitarra minimali ma non particolarmente ispirati, una voce che vuole essere teatrale e versatile ma che fatica a toccare le giuste corde. Fortunatamente la situazione migliora nella successiva Gluttony, che ha linee di chitarra sempre minimali ma più convincenti e un bel ritornello, melodico e che rimane in mente grazie anche ad un lavoro del singer decisamente migliore, un pezzo che si fa ascoltare e riascoltare volentieri. Bleeding Colossus non mi ha suscitato particolare interesse mentre NoName invece risolleva di nuovo in parte le sorti dell’album, con le sue velleità barocche e da colonna sonora e un bel gioco tra chitarra, batteria e violoncello, nonostante un ritornello poco incisivo. Migraine è una strumentale che ha poco da dire. Per quanto mi riguarda XII prosegue senza particolari guizzi fino alla penultima traccia, Open The Cage, che mi è piaciuta. Chitarre acustiche, linee vocali che finalmente colpiscono nel segno, basso sborone non pervenuto. Sebbene XII non mi abbia convinto del tutto, del buono l’ho trovato. Indubbiamente c’è del sentimento, ci sono delle buone idee, riesce a trasmetterti qualcosa. Buono e comprensibile l’intento, la strada si intravede, la personalità pure ma il songwriting è da sviluppare ed affinare ancora.

[Lenny Verga]

Report concerto: Ville Valo + Zetra (Ljubljana 14.04.2024)

Tolgo immediatamente l’elefante dalla stanza, come potete immaginare Ville Valo non rientra negli ascolti quotidiani del sottoscritto, ma neanche in quelli mensili/annuali. Però. Però l’altra metà del MayheM-Duo desiderava molto vedersi il concerto di Valo a Ljubljana e ritornare, anche solo per quell’ora e passa di musica, indietro nel tempo. Riassaporare certi ricordi. Un pizzico di occhio lucido. Lo capisco e lo supporto.
Diciamolo, chi sono io per negare questa più che legittima volontà? Soprattutto perchè su TheMurderInn faccio uscire recensioni di dischi dai 20 ai 50 anni fa. Pura nostalgia in parole e musica. Ma partiamo con ordine e metodo.
Riusciamo, con abilissime mosse diplomatiche, a far pernottare il futuro Re dell’Austria a casa dei suoi genitori, prendere la macchina e indirizzarla verso Ljubljana (Nota a margine: per chi non lo sapesse, per poter viaggiare sulle autostrade slovene bisogna comprare una vignetta della durata di 10 giorni al “modico” prezzo di 20 euro. Questo anche quando stai solo una sera. Che siano maledette le autostrade slovene).
I problemi arrivano quasi subito quando il sito che emette le vignette segnala uno sconfortante down: niente vignette equivale a niente autostrada. La cosa, accolta con mugugni e qualche sentito rimprovero verso divinità monoteiste, si è in realtà rivelata una gita più piacevole del previsto e il tempo perso è stato contenuto. Quindi, onore e gloria alla gita non preventivata.
Arriviamo al Cvetličarna (locale da concerto decisamente interessante, palco piccolino, pit non enorme ma sopra bella balconata da dove vedere la band) giusto in tempo per vedere la band d’apertura che sta già “scaldando” i presenti. I Zetra sono un duo inglese, sono pittati, hanno chitarra e tastiere e già vi potete immaginare il genere, no? No. Bene, perchè è stata una tortura ignobile sentire quello che hanno prodotto nel tempo loro concesso. Detto della strumentazione, ci aggiungo coretti, musiche celestiali, chitarrine che viaggiano carine e, in generale, una voglia di prendere la corda, gettarla sulla prima trave e appendermi e rendere l’anima a Odino. Imbarazzanti, per me. Ma il pubblico sembrava anche contento di sentirli. Guardo l’altra metà del Mayhem-Duo e vedo che l’espressione perplessa è identica. Sia ringraziato Baphomet!


Tanto ho accompagnato la moglie a Ljubljana principalmente per Vile Valo, l’apertura degli Zetra è stato solo un contrattempo fastidioso e lo dimentichiamo velocemente. Cambio palco, luci e via con la portata principale data dall’ex HIM. Non mi son guardato la setlist, questo è stato compito della consorte, ma cerco di entrare nel mood della serata. Non sarà la mia musica, ma perchè non trarne una serata piacevole? E come sorpresa assoluta la band fa un lavoro pesantissimo. I musicisti pestano come fabbri, le chitarre sono quasi stoner, a volte girano su hard rock quasi Soundgarden-iani per poi ritornare nelle lande degli HIM e del sound che ti aspetti da Valo. Ma pesante. In tutto questo tripudio di watt, manca proprio lui: Ville Valo. Per tutto il primo brano (credo tratto dal debutto solista) non lo si sente, almeno finchè non osa un acuto e, signore e signori, la voce è semplicemente oscena. Mr. Valo ha le corde vocali fredde per almeno tre canzoni, tante son state necessarie per scaldargli l’ugola e fargli trovare non solo sicurezza nel cantato, ma anche una maggiore scioltezza sul palco. Per tre canzoni è sembrato fermo, nervoso e a disagio, ma appena la voce ha preso a funzionare decentemente, girando bene sui toni bassi e facendo a volte un po’ fatica su quelli alti, Ville Valo ha iniziato a interagire col pubblico, spargendo sorrisi e poche parole.
Mia moglie si gira e mi dice: è timido. Potrebbe essere, sia chiaro, e mi fido del suo giudizio.
La scaletta del concerto è un best of degli HIM, brani ovviamente acclamati in maniera quasi spasmodica, e moltissimi estratti da Neon Noir. Il tutto condito da una band che, ripeto, non si lascia tentare troppo dalle svenevolezze gothic, ma va giù abbastanza dura e pesante. Cosa che, credetemi, non poche volte mi fa battere il piede e muovere il capoccione testardo. E poi le canzoni degli HIM, o del Ville Valo solista, hanno una componente pop immediata che mi ha permesso di impararle in pochi secondi e ricordarle ancora più a lungo. Decidete voi se è un bene o meno, di certo è qualcosa che il pubblico (moglie compresa) ha apprezzato ballando, scatenandosi, urlando e applaudendo senza riserve.
Dal mio punto di vista, da esterno e da vecchio critico burbero e ingrigito, essersi tolto il “peso” della fama degli HIM e girando da solo ha giovato a Valo. Adesso è libero di fare quello che vuole, prendendo tutto quello che gli interessa dalla sua ex band e mettendo in mostra la direzione che vuole senza dover, per forza, rendere conto a nessuno. Il progetto è suo e sue le decisioni. Il risultato delle canzoni è piacevole, gothic rock dal taglio tipicamente finnico, ma che hanno in egual misura accenti pop, parti zuccherine, un po’ di metal, molto gothic e scaglie di amore decadente, il tutto shakerato e lasciato a cuocere per un po’.
Il concerto termina con un lungo bis (tre canzoni) e poi via, nessun saluto e spazio alla band che riprende a macinare note e heavy metal come se non ci fosse un domani. Quando le chitarre fischiano la fine e la consorte vede che non c’è nessun modo di veder tornare sul palco VV, ci dirigiamo all’uscita e direzione Austria.
LO ammetto candidamente, mi sono aspettato molto peggio, più cosette pop e “love metal” (che c’era) come da disco, ma il tiro assassino dei due chitarristi e del batterista ha fornito una forza alle canzoni che ha aumentato il giudizio finale sul concerto. Non diventerò fan degli HIM o di Ville Valo, ma di certo ha fatto un concerto come si deve. Ma il mio è un rapporto di minoranza. Vedendo gli occhi luccicanti e il sorriso a 32 denti di mia moglie penso che dovrei aumentare l’ipotetico voto di almeno 2/3 punti. Potenza dei ricordi.
[Zeus]

Black Label Society – Hangover Music Vol. VI (2004)

Come ho già avuto modo di dire un po’ di tempo fa, il periodo fra 1919 Eternal (2002) e Shot to Hell (2006) segna il periodo più indaffarato della Black Label Society. E sinceramente parlando, nonostante la proverbiale incapacità di Zakk Wylde di confezionare un disco realmente grandioso, il percorso è in costante crescendo, con un primo climax nel 2003 e poi uguagliato con Mafia, disco che mi ha quasi fatto sognare una BLS finalmente consistente. Mi son svegliato ben presto con lo schiaffone preso con il deludente Shot to Hell e la lunga pausa di 4 anni (con conseguente uscita dalla band di Ozzy Osbourne), che mi consegnerà quell’Order of the Black con cui Wylde dimostra di essere in piena forma (anzi, non sarà mai più così in forma).
Fra The Blessed Hellride e Mafia c’è questo dischello qua: Hangover Music Vol. VI.
Il disco l’avevo acquistato sulle ali dell’entusiasmo, visto che Zakk e la BLS erano un must da ascoltare e sentire in molte delle sessioni alcoliche. Non poteva che essere così, in fin dei conti. A skippare i brani più deboli e tenendo i pezzi bomba di ogni CD, si riesce a creare un ottimo “BLS-Frankenstein” da utilizzare come colonna sonora per una bevuta.
All’epoca avevo letteralmente consumato Hangover Music Vol. VI. Comprato e fatto girare e girare nel mio Hi-Fi, mi son dapprima goduto il suo mood rilassato, il suo essere un LP che viaggia in gran parte in punta di dita (sic!) ma che non disdegna certi momenti di esplosione d’elettricità. E poi la voce maschia di Zakk si adatta bene anche all’ambito acustico (come abbiamo imparato su Book of Shadow) e le dita di muovevano leggere e sapienti sulla sei corde… quindi che c’è di male nel pensare ad un disco elettroacustico?
L’idea suona(va) bene e la Spitfire Records non deve neanche averne visto lati negativi. In fin dei conti la BLS aveva un credito enorme dato sia dal suo Curriculum sia dal “primo/secondo lavoro” di Zakk e i fan hanno sempre supportato la creatura del barbuto del New Jersey.
Quindi perchè sento le dita prudere con il giudizio “tranciante”? Il “ma” detto dopo una sequela di complimenti? Perchè Hangover Music Vol. VI ha un problema di fondo: è un compendio di buone canzoni, ma non un buon disco. Senza dubbio troppo lungo e, alla lunga, anche vagamente pesante/noioso.
Prese singolarmente, le canzoni reggono e non si trovano brani brutti; una buona manciata sono deboli, ma brutti brutti no, mentre alcuni di loro sono proprio killer (Crazy or High è forse IL pezzo di Hangover Music Vol VI). La difficoltà è la durata di un’ora abbondante e, dopo l’abbuffata iniziale, difficilmente mi son più trovato a schiacciare play e rifarlo partire compulsivamente.
Pian piano fra un ascolto e l’altro son passate sempre più giorni, settimane, e poi mesi… finchè non è stato semplicemente smembrato in una serie di canzoni da inserire in questa o quella playlist di Spotify. Pratica orribile, lo so, ma almeno a vent’anni di distanza mi posso ancora godere senza remore quello che, in questo album del 2004, è per me di qualità superiore (oltre alla tripletta iniziale, posso dire House of Doom o Won’t Find It Here).
Nota a margine, fra tutte le cover brutte/bruttine/indifferenti della BLS (che son la maggioranza), questa finisce direttamente nella categoria realmente brutte, tirata insieme com’è da tal Rob Arvizu in preda ad un brutto momento di Photoshop-diarrea.
[Zeus]

Smorrah – Welcome To Your Nightmare (2024)

Singolare la storia discografica dei tedeschi Smorrah: hanno pubblicato un EP nel 2018, un singolo nel 2020, un live nel 2022 e arrivano oggi a rilasciare il primo full lenght. Se il titolo dell’album inevitabilmente ci fa ricordare un certo album di Alice Cooper, Welcome To Your Nightmare gira su tutt’altre sonorità. Il quartetto si cimenta in un ben calibrato mix di thrash e death metal bello incazzato e carico e con un occhio di riguardo tanto alla tradizione, quanto alla modernità. Il disco si apre con una doppietta spaccaossa, la title track e la seguente Dead Snake Eyes che mettono subito in chiaro le intenzioni e le caratteristiche della band: pestare duro, spargere follia e una notevole capacità di esecuzione. Si passa poi ad esplorare territori più melodici con la seguente Age of Decay che, almeno secondo me, ha qualcosa di swedish nel suo DNA. Gli Smorrah non indugiano però troppo nel melodico e riprendono a pestare duro, a sfruttare qualche mid tempo (Buried Underneath), rallentamenti doomeggianti (la parte iniziale di Death Awaits) e, fondamentalmente, a pompare groove e a indurre all’headbanging chiunque sia in ascolto. Solamente nella conclusiva When the Tide Comes In la band si concede ancora un’apertura verso il melodico ma, come possiamo immaginare, sono solo respiri tra una sferzata di violenza e l’altra.

In Welcome To Your Nightmare troviamo una proposta onesta, appassionata, una band consapevole dei propri mezzi, sia nel songwriting che nell’esecuzione che, anche senza sconvolgere il mondo del metal, dimostra un gran lavoro sulle chitarre, macinando riff e assoli, una sezione ritmica potente ed un cantante in grado di destreggiarsi in ogni situazione. In definitiva un album che può incontrare i gusti di un sacco di metalhead dalle diverse inclinazioni, salvo i puristi forse, ma quelli non vanno d’accordo nemmeno tra di loro. Bel lavoro.

[Lenny Verga]

Hellripper – Warlocks Grim & Withered Hags (2023)

Con ritardo, per colpa mia (e sì che ti paghiamo profumatamente! N.d.Zeus), si recensisce questo discone.

Perchè questo ritardo? Perchè tutti incensavano Warlocks Grim & Withered Hags, mentre io l’ho ascoltato ma al primo colpo dicevo : ” Beh, bello ma…”. Quindi cercavo la chiave per scrivere la recensione. Perchè come lo descrivi un disco del genere? Ma poi ascoltandolo e riascoltandolo ti accorgi che ti prende nell’animo, e questo non è un disco che va ascoltato, ma va vissuto! Questa è musica che devi sparare ad una grigliata dopo la 5 birra, o in macchina con due amici mentre si va da qualche parte, o meglio ancora, va visto suonato dal vivo. Tutte le canzoni sono bombette ad orologeria e i riff, quelli semplici, non stufano, e quelli complicati scendono giù come uno shot di Vodka liscia con pepe. E poi un’apertura come “The Nuckelavee” erano anni che non si sentiva! E perchè tutto ciò? Perche il ragazzo ha gusto, buon gusto!
E come descriverli (descriverlo forse è meglio, essendo una one man band) ‘sti Hellripper? Thrash Black? I Motörhead che fanno black metal? I Children Of Bodom incazzati e senza tastiere? Niente e tutto questo, un mischione di tutto il metal “standard”: quindi dal classic, all’epic, dal death al thrash fino ad arrivare al black, tutto frullato e spedito a mille all’ora con un senso della costruzione delle canzoni ottimo e suonato divinamente!
Da vedere assolutamente dal vivo, mi sa che il ragazzo potrebbe puntare ad un ipotetico podio del nostro amato genere, mi sa che ancora un disco e lo vedremmo nei posti alti dei festival!
[Lord Baffon II]

Alcol, botte da orbi e droghe, in altri termini: Lynyrd Skynyrd – Second Helping (1974)

I Lynyrd Skynyrd sono una delle band della vita. Lo so, fino ad ora ne ho parlato abbastanza male o in maniera estremamente critica, ma c’è una bella differenza fra i Lynyrd Skynyrd pre-incidente aereo e quelli successivi. Un’enorme differenza. Non che fino al terribile giorno del 1978 non ci siano stati momenti di calo in casa Skynyrd, Nuthin’ Fancy o Gimme Back My Bullets non sono sempre all’altezza della fama della band, ma è indubbio che questi due LP “deboli” mangiano in testa a tutta la discografia post-reunion. Questo perchè, pur avendo ancora 2/3 dei chitarristi originali (Rossington, Ed King), mancava la capacità nel songwriting di Ronnie, la vena compositiva di Steve Gaines (che aveva portato freschezza ad una formazione debilitata da abusi e continue lotte) e l’estro di Allen, che ormai non era più della partita causa invalidità causata da un incidente in auto. Non è poco, signori miei. Se posso fare un paragone “estremo”, guardate cosa è successo a band come i Metallica o gli Slayer dopo la morte di uno dei membri più importanti del gruppo.
Ma non salto troppo avanti nel tempo. Adesso siamo nel 1974 e i Lynyrd Skynyrd sono una band che semplicemente spacca. Il tour americano come suppporto agli Who non solo aveva messo i floridiani sul radar, ma aveva addirittura messo una bella paura agli Who (spesso e volentieri surclassati dalla furia esecutiva degli Skynyrd). Il disco d’esordio, senza mezzi termini una bomba, era ancora caldo essendo uscito l’anno precedente e Van Zant e soci decidono di battere il ferro finchè è caldo e mettono a ferro e fuoco il Record Plant in California e continuano la collaborazione con Al Kooper. Cooperazione che potrebbe essere descritta come turbolenta, per usare termini generici, o una rissa senza quartiere per una migliore visione d’insieme. Second Helping è un disco che prende subito ed è un LP che distrae, ma non per colpa sua. Distrae perchè dei Lynyrd Skynyrd cosa si conosce? Sweet Home Alabama e poi? Il vuoto che si forma dietro quella canzone è così grande da far cadere nell’errore anche appassionati di musica a tutto tondo. Il fatto è che dentro Second Helping ci sono canzoni per tutti i gusti e non si ferma alla notevole, per quanto ormai usurata ed abusata Sweet Home Alabama (che trova il suo corrispettivo albionico in Smoke on the Water in termini di abuso/usura). Quanto è dolce e romantica I Need You (spaccando comunque con ottime parti di chitarra)? Quanto southern-blues c’è dentro The Ballad of Custis Loew. E poi il boogie assassino e il southern rock tagliato spesso con l’accetta rispetto alle raffinatezze degli Allman Brothers. Il piano honky-tonk di Billy Powell che imperversa su Call Me The Breeze di J.J. Cale? Per me son momenti di grandezza.
Il fatto è che all’epoca tutti i recensori avevano sputato sulla band, distruggendola sistematicamente nelle recensioni (sorte che li accomuna ai Black Sabbath), creando un confronto forzato – anche se, a volte, non troppo- con la Allman Brothers Band. Non era corretto, concepisco che la materia trattata è quella ma è l’approccio che cambia: tanto erano raffinati e professionali Duane, Gregg e Betts, quanto erano gente di strada i Lynyrd. E si sente nella musica. Non sto dicendo che suonavano male, sto dicendo che quella pericolosità, quella vena stradaiola e l’animo ruspante di Ronnie, Allen e compagnia era portato con fierezza.
Ho sentito Second Helping una vita fa, realmente, e mi si è inciso nel petto all’altezza del cuore. I Lynyrd Skynyrd non mi stufano, non mi deludono e spesso, quando non indulgo nella musica preferita da Bafometto, è proprio la vena sudista a soddisfare i miei istinti rock. Non per nulla una delle mie band preferite ha proprio fatto uscire un disco intriso di Lynyrd Skynyrd e Black Sabbath.
Sto riascoltando il disco come sottofondo mentre scrivo la recensione, non per rinfrescarmelo (potrei parlarne a memoria), ma proprio perchè il piacere assoluto di sentire i Lynyrd Skynyrd attaccare con tre chitarre spianate Workin’ For MCA è un gran bel sentire e mi mette in pace con il mondo. E soprattutto, per poco meno di 38 minuti, mi scordo che domani è lunedì e che il weekend è semplicemente evaporato con i primi caldi primaverili.
[Zeus]


Vltimas – Epic (2024)

Eccoci qua, ritorna il “supergruppo” Vltimas, che nella nostra epoca di fattura Marvelliana, con supergruppo ci aspettiamo gente con superpoteri che strappa i muri coi denti, lancia laser dal buco del culo e vola verso Saturno e poi si riunisce per distruggere Manhattan e salvare il mondo. E quindi dal batterista dei Criptopsy, da Blasphemer e da cowboy Dave Vincent ci si aspetta che (stra-)facciano l’impossibile, ritmiche spezzate, rullate pirotecniche e invocazioni iperblasfeme urlate coi polmoni in mezzo alla trachea.
Invece no. Ma ce lo avevano già detto con il disco precedente.
Disco si di musica estrema, ma molto ponderato e pensato, con tutte le cose ben fatte al loro posto. Senza esagerare. Vuoi l’assolo? Ci sta l’assolo, ma ben fatto, a posto, con gusto. Vuoi il riffone? ci sta il riffone, senza usare mille note, con gusto, funzionale alla canzone. E la batteria? Dai, Mounier è noto per il suo suonare sopra le righe, farà praticamente solo fill velocissimi? No, fa le sue robe, spinge quando deve spingere, accompagna quando deve accompagnare, dove e come è richiesto dalla canzone. Quindi? L’ho praticamente detto. LE CANZONI. Ci sono tutte. Senza esagerare, che le ascolti la prima volta e dici, niente di che, poi lo riascolti una seconda volta e passa, la terza volta lo cerchi e poi ti ritrovi in fila alla posta a canticchiare “Ma-ni-feestooo“. Perchè questi tre sono grandi, perchè sono professionisti prima di essere virtuosi. Questi hanno chiaro in mente cosa vogliono quando scrivono una canzone, sanno che mettendo lì uno stop e là un accellerazione e la canzone gira e non bisogna strafare.
E soprattutto Dave, che non deve dimostrare più niente e nessuno, lui nella leggenda c’è già entrato, e quindi perche puntare al limite? Infatti interpreta i sui testi in maniera magistrale, quasi teatrale, rendendo il suo growl comprensibile, mettendo i ritornelli nei punti giusti, in modo che ti rimangono in testa.
Disco ottimo? No, era meglio il primo, ma devo dire che è fatto veramente bene e si ritorna ad ascoltare molte più volte di altra roba, che magari al primo ascolto ti fà dislocare la mascella, ma finito l’effetto speciale, rimane nello scafale.
[Lord Baffon II]