Metallica – 72 Seasons (2023)

Come si fa a recensire un nuovo album dei Metallica quando ne hai le palle piene di sentirne parlare già da un mese prima dell’uscita? Dico “parlare”, ma in realtà “frignare” sarebbe un termine più adatto da applicare ai discorsi della maggior parte delle persone che hanno ammorbato internet nelle ultime settimane. Sentire gente che nel 2023 inizia i discorsi con “Quando c’era Cliff…”, “Ai tempi di Kill ‘em All…” ti fa gridare all’interdizione per quei soggetti. Io non ascolto più seriamente i Metallica dai tempi di Load e sono quasi a digiuno (quasi perché abbiamo avuto la malsana idea di preparare qualcosa per i vent’anni di St. Anger, e lì sì che saranno dolori) di tutto ciò che è venuto dopo, quindi probabilmente meglio disposto a spararmi questo nuovo 72 Seasons rispetto a chi negli anni si è accaparrato ogni uscita della band (per poi sfrangiare i maroni al prossimo perché faceva cagare).

La prima cosa che mi ha messo in allarme quando mi sono preparato all’ascolto è stata la durata dell’album, un’ora e diciassette minuti, e la lunghezza di alcuni pezzi. La title track che apre l’album devo dire che si fa ascoltare con piacere, è un buon pezzo d’apertura con riff efficaci, ma con un paio di difetti: gli assoli di Hammet che proprio non mi sono piaciuti (come in tutte le altre canzoni) e la durata eccessiva. Il pezzo scorre bene ma un minuto in meno lo avrebbe reso molto più bilanciato. Già con la successiva Shadows Follow l’interesse si appiattisce, anche se il break centrale è carino. Due riff trascinati per oltre sei minuti e un pre chorus che mi ha fatto venire in mente alcune cose brutte dei Machine HeadScreaming Suicide, già messa in croce in rete perché contiene la parola “suicide” (che due coglioni gente, che due coglioniiiiiii) nonostante un attacco non proprio esaltante, mi è sembrato un pezzo abbastanza coinvolgente. Sleepwalk My Life Away parte con un divertente piglio thrash n’ roll per poi ammosciarsi in più punti per un risultato complessivo che è più un “no” che un “sì”. Occasione sprecata. 

You Must Burn! risolleva un po’ la situazione dal precedente pezzo, un mid tempo senza troppa fantasia e con qualche accenno doom che però scorre bene. Lux Æterna ormai l’hanno sentita anche i sassi. Per alcuni è un brutto pezzo dei Megadeth, per altri un tentativo riuscito di guardare al passato. Ha dalla sua che è un pezzo veloce e senza fronzoli ed è già qualcosa. Crown Of Barbed Wire è un altro mid tempo che, sebbene inizialmente non sembri male, risulta poi essere piuttosto piatto. Chasing Light cerca di essere un brano più vario e strutturato e in parte ci riesce, anche se non fa di certo gridare al miracolo. If Darkness Had A Son invece mi ha stupito positivamente, mi è piaciuta parecchio e non importa se siamo ancora sui tempi medi, per me è uno dei pezzi migliori dell’album, i riff sono buoni e il ritornello mi si è stampato subito nel cervello. Too Far Gone? è un altro pezzo breve e relativamente veloce, ma che non presenta elementi particolarmente interessanti. 

Room Of Mirrors fortunatamente riesce dove il precedente aveva fallito e secondo me è un pezzo valido, forse il momento più thrash di tutto il disco. Chiude l’album Inamorata e immagino già i cristi e le madonne che voleranno a (s)proposito là fuori. Undici minuti e mid tempo, siamo sempre lì, però devo dire che ci sono degli elementi che mi sono piaciuti, a partire dal mood decadente e dalle belle linee melodiche. Per me è una canzone interessante. Tirando le somme, di pezzi che mi sono veramente piaciuti in questo 72 Seasons ce ne sono quattro, più ancora un paio che si salvano a malapena. Siamo su un 50% stiracchiato, quasi regalato, un po’ poco. Non che abbia avuto il tempo di riascoltare l’album chissà quante volte e magari più avanti potrei rivalutare, o svalutare, qualcosa.

[Lenny Verga]