Iron Maiden – Dance Of Death (2003)

È difficile che qui da noi passi tanto tempo senza parlare degli Iron Maiden e questa volta la ricorrenza sono i vent’anni di Dance Of Death. Il ricordo più caro che ho legato a questo disco coincide con l’ultima volta che ho potuto vedere la band dal vivo, il cui tour passò per Firenze, e che andai accompagnato da mio fratello, che il metal non lo guardava neanche con il binocolo. Fu una serata memorabile, soprattutto per me! Per la cronaca, ad aprire il concerto furono i Gamma Ray.

Che la band inglese stesse cambiando nel songwriting era già evidente dal precedente Brave New World, ma Dance Of Death si spinse ancora oltre, con un maggiore uso di tastiere e arrangiamenti barocchi, la vena prog sempre più visibile. L’album divise e divide ancora oggi, probabilmente molto di più rispetto a tutte le opere successive, tra chi lo considera l’ultimo album degno di nota della band e chi lo considera tra i peggiori di sempre, se non IL peggiore.

Personalmente non posso negare che degli album post reunion con Dickinson e Smith è il disco che ho apprezzato ed ascoltato di più. Non lo considero perfetto, tanto che apre con un pezzo, Wildest Dreams, che non è di certo memorabile, ma a differenza dei lavori successivi, la maggior parte dei brani qui contenuti mi sono rimasti stampati nella memoria: RainmakerNo More Lies (sì, avrebbe giovato di qualche minuto in meno), Montségur (più per il ritornello e la parte strumentale a metà, che per la canzone in sé) la title track, Paschendale (pezzo dellamadonna),  Face in the SandJourneyman. Un bel numero, rispetto a quello che verrà poi.

Dance Of Death è un album imperfetto, con alti e bassi ma che, almeno da me, non si è fatto dimenticare immediatamente nella sua quasi interezza. Di certo non si è fatta dimenticare nemmeno la copertina, dove ad un bellissimo Eddie in versione mietitore si aggiunge un carnevale di figure in CG che “mio cugino le faceva meglio e gratis”. Tra l’altro, si trova sull’unica maglietta originale che ho dei Maiden e l’avrò messa due volte. Orrore.

[Lenny Verga]