Il problema è la mancanza di comunicazione. Pink Floyd – The Division Bell (1994)

The Division Bell dei Pink Floyd è uno di quei dischi che sento nominare spesso nelle chiacchierate “alte”, baciato oggettivamente da una grafica da poster in camera, ma di cui non mi ricordo una canzone che sia una. Anzi, ad onor del vero, ascolto The Division Bell per la prima volta da 20 anni a questa parte. L’ho ascoltato al momento della sua uscita, un po’ perchè me l’aveva consigliato mio cugino parlandomene molto bene, un po’ perchè sono cresciuto in una casa dove The Dark Side of the Moon è un disco riverito. Se questo secondo fattore è comprensibile e apprezzabile, sul primo punto (la recensione sostanzialmente positiva, se non entusiastica), ho molto da discutere. Potere del vincolo familiare, dei rapporti di parentela. Avrei dovuto guardare bene la discografia, cari i miei due lettori, e avrei dovuto capire a suo tempo che non c’era storia, che quella recensione era fuffa.
Il mio problema è che i Pink Floyd, per il sottoscritto, erano finiti post-The Wall; The Final Cut, primo senza Wright buttato fuori durante The Wall e con la band sul piede di guerra, non sono mai riuscito a sentirlo con l’animo giusto e quindi non è un LP che fa per me, anche se ci sono dentro canzoni che mi intrigano.
A partire da 1983, i Pink Floyd sono materia data alla storia, ma storia non erano. Anzi, 5 anni dopo The Final Cut il duo Gilmour – Mason era già attivo con A Momentary Lapse of Reason e nel 1994 ecco il secondo parto: The Division Bell. Evento nell’evento, Wright ritorna ad essere membro effettivo della band dopo quasi 15 anni. E il disco? The Division Bell è troppo spesso molto forma e poca sostanza, non incide. non ti brucia dentro come molte delle canzoni precedenti. Il fatto è che la forza della band era prima il carisma pazzoide di Syd Barrett e dopo il contrasto di personalità fra Waters e Gilmour. Un contrasto produttivo, almeno finchè non ha incominciato ad alzare la temperatura del nocciolo e causare una reazione a catena che ha portato tutto al collasso. Senza l’anima critica, dittatoriale, politicizzata, geniale ed egocentrica di Waters, nei Pink Floyd manca qualcosa, ed è un qualcosa grande quanto una delle sculture in copertina.
Ecco i miei due cent e scrivo queste righe mentre riascolto questo LP nel febbraio del 2024. Tutta la prima parte della scaletta (fino a Wearing The Inside Out), non ha per me consistenza vera. Due strumentali e la chitarra di Gilmour che fa il compitino, tranne forse in What Do You Want From Me in cui si respira un qualcosa dei Floyd pre-1980; il resto non c’è. A partire da Take It Back in poi sento qualcosa, anche se in termini di qualità non stiamo proprio allegri. La sensazione è di trovarsi di fronte ad una band che suona, nel 1994, come fosse nel 1980. Capisco essere senza tempo, e i Pink Floyd possono esserlo senza tempo, ma la mia sensazione è di vago spaesamento. Take It Back è piacevole, mentre Coming Back To Life inizia eterea, promettente, ma poi il ritmo di batteria di Mason (e aggiungiamoci le cowbell) mi smarona e la canzone non accenna mai a decollare. La doppietta Keep Talking Lost For Word è Floyd sui generis, con la seconda che ha un senso quasi di british country. The Division Bell si chiude con la lunga e leccata High Hopes, un titolo – un programma per un disco che promette ma non mantiene, se non poco e con le braccine corte.
Dopo il primo innamoramento fugace degli anni ’90, non ho mai più riascoltato The Division Bell, un disco che ai miei occhi è caduto presto in disgrazia e che non si è mai ripreso. Il giudizio era forse troppo severo, bruciante quasi, ma la realtà è che nel 1994 i Pink Floyd avevano sì classe, ma sono più mestiere. Il grosso problema è che lo esercitano raramente con il cuore nel posto giusto.
[Zeus]