Cannibal Corpse – The Wretched Spawn (2004)

A ripensarci adesso, The Wretched Spawn l’ho ascoltato con discreta continuità sulla strada per andare al lavoro. Bici e via per 20 minuti a tratta per arrivare sul posto di lavoro fresco come una rosa mentre i Cannibal Corpse davano giù di brutto battendo il ferro caldo e la testa morbida con Severe Head Stoning e gestendo bene le aspettative con la convincente Decency Defied. Webster e compagnia davano ritmo alla gamba, anche perchè su The Wretched Spawn il discorso accelerazioni era stato in gran parte accantonato, andando a mettere l’accento su un filo meno di inventiva e gestendo i 45 minuti mettendo in saccoccia qualche accelerazione e andando a marcare il territorio anche con diversi tempi medi-lenti e dritti come certe autostrade americane (title-track o Festering in the Crypt).
In linea di principio la cosa non era un’idea stupida, dopo aver messo a ferro e fuoco le mie orecchie con l’ottimo Bloodthirst del 1999 e inaugurato il nuovo millennio col “mediocre” (ma non in senso negativo, era proprio un disco nella media) Gore Obsessed, giocare sul sicuro poteva portare solo cose buone. E ci hanno visto giusto, visto che in fin dei conti l’album gira bene fra pezzi che sono ancora oggi freschi e piacevoli da ascoltare.
The Wretched Spawn non è forse un grande disco sulla lunga distanza, ci sono degli evidenti cali di ispirazione verso un generale “suono Cannibal Corpse”, cioè quelle canzoni che vanno bene per tutte le stagioni, riconoscibili e “godibili” ma non capolavori, ma ha ancora dentro alcune canzoni da tenere e presentare ai nipoti ansiosi di sapere cosa si ascoltava nel 2004. Al nono disco in studio non potevo certo aspettarmi una rivoluzione copernicana da una band che, da un paio di dischi a questa parte, ha evidententemente cercato una propria stabilità compositiva (riuscendoci pienamente), ma uno scatto d’orgoglio rispetto a Gore Obsessed sì. L’ho ricevuto a suo tempo? Sì. Sto risentendo lo stesso effetto frustata al collo anche adesso che son passati 20 anni dalla sua uscita? Certo, ha ancora quella capacità di
farmi muovere il capo, dare la pacca sulla coscia e smuovere il piede. O tirar due sberloni al volante, se proprio volete, visto che in questa landa campagnola in cui sono finito, la questione auto assume un valore a dir poco vitale.
Bloodthrist era un paio di gradini sopra, senza dubbio, ma The Wretched Spawn non mi ha mai deluso. Oggi come allora.
[Zeus]


Cannibal Corpse – Gore Obsessed (2002)

Lo dico chiaramente, così evito di partire con il piede sbagliato e di essere criticato a morte perché non capisco un cazzo di musica. La qual cosa è vera, sia chiaro, quindi le mie opinioni non dovrebbero neanche crearvi troppi grattacapi, prendetele per quello che sono: deliri di un tizio che scrive per TheMurderInn e viene pagato profumatamente per indottrinarvi nel modo sbagliato.
Dicevo? Ah sì, Gore Obsessed dei Cannibal Corpse è un ottimo disco, solo che ha un paio di pecche che lo mettono in una posizione strana nella discografia della band americana. Il primo problema, e non è neanche colpa sua, è che esce post-Bloodthirst e son cazzi vista la qualità di quel disco. Un disco che aveva dalla sua molte qualità, soprattutto l’essere riuscito a mettere insieme una tracklist compatta, cazzuta e senza filler o brutture. Pochissimi dischi della discografia dei Cannibal Corpse riescono a far questo. Gore Obsessed non parte male, forse un po’ lento con Savage Butchery (negli ultimi vent’anni comunque è migliorata alle mie orecchie) e Hatched to the Head (meno interessante) ma poi prosegue in crescendo. Nel 2002 i Cannibal Corpse non modificano di tanto l’attitudine del 1999, se nonché l’aggiornamento al passaggio di secolo ha portato con sé alcuni riff forse meno immediati o più “normali” e un pugno di canzoni meno impattanti (la citata Hatched to the Head e When Death Replaces Life, che scrivo di getto, con quest’ultima “solo carina”). Il disco però poi fa la voce grossa: Pit of Zombies, Sanded Faceless o Compelled to Lacerate spaccano, la ripetitività psicotica di Dormant Bodies Bursting è efficace nel rimanerti in testa e non ci sono vere cadute di tono anche quando i tempi rallentano come su Hung and Bled.
In secondo luogo, e anche qua il discorso è relativo e quindi prendetelo cum grano salis, è il fattore produzione: preferite un suono più corposo o un più secco? A seconda della risposta, vedete anche voi se avete un problema con quanto state ascoltando. Grazie a, o per colpa di, Neil Kernon, Gore Obsessed ha con un sound abbastanza secco e preciso, che si scosta in maniera sensibile da quanto fatto da Richardson sul precedente LP.
A me non dispiace, visto che poi la stessa accoppiata Cannibal Corpse – Kernon la ritroverò anche su The Wretched Spawn, disco che mi piace e che ho ascoltato più volte di questo del 2002, ma è questione di gusti: e su alcuni particolari si fondano le memorie e il numero di ascolti.
Ammetto serenamente che nel 2000 ho ascoltato questo LP meno di quanto avrebbe meritato, ma era schiacciato fra Bloodthirst e The Wretched Spawn e solo con il passare del tempo sono riuscito a dargli quella posizione che si merita nella discografia del post-Vile. Per una questione di ascolti, di tempo passato e di alcuni valori affettivi, Gore Obsessed rimane ancora oggi il fratello minore dei due dischi sopracitati, ma è riuscito finalmente ad emergere per quello che era, ed è tutt’ora: un disco che avanza senza pietà per 38 minuti abbondanti e, pur zoppicando qua e là, ha una compattezza e una qualità media superiore a Gallery of Suicide – forse uno degli LP più incostanti della discografia dei Cannibal Corpse con Corpsegrinder al microfono.
[Zeus]

Butchered at Birth dei Cannibal Corpse è più vecchio di molti di quelli che lo adorano.

Quando è uscito Ace Ventura avevo 13 anni e, di metal estremo, non ne capivo una beneamata fava. Potete anche capirlo, non ho fratelli maggiori a illustrarmi la via del metallo, quindi tutto quello che ho scoperto è merito della testardaggine del sottoscritto. Come anche i muri sanno, dentro quel film, già culto di suo, c’è un cameo dei Cannibal Corpse che suonano Hammer Smashed Face e… no, ok, ho già detto tutto. Film da botteghino e brutal death insieme, stiamo parlando di un’altra epoca storica anche nel cinema; adesso, con tutte le restrizioni varie, non puoi dire, fare, pensare niente se no ti accusano di qualsiasi cosa.
Un tempo c’era un misto di menefreghismo e ingenuità che, francamente, non mi dispiaceva. Finché si mantiene “la misura”, si può ragionare su tutto.
Detto questo e pensando “ai bei vecchi tempi”, noto con affetto che Butchered at Birth è uscito 30 anni fa e guardando parte del pubblico ai concerti, il dato è notevole: molti di quelli che ascoltano metal, e hanno forse il tempo di uscire e vedersi un concerto, non erano neanche nati al tempo di Butchered at Birth. In realtà, vedendo l’età media, c’è da chiedersi se non fossero proprio lontani dai pensieri.
Ci sono anche le vecchie carcasse, gli irriducibili con più toppe e cicatrici da bevute selvagge che capelli, ma questi sono una razza in estinzione dovuta alle mille traversie della vita. Ma il gruppo di 50 personaggi oltre i 40 ci sono e tengono duro finché non collassano a terra sbavando cose verdi dalla ogni orifizio.
Logicamente molti conoscono Tomb of the Mutilated proprio per quella canzone, e le altre 4/5 che praticamente ogni metallaro conosce o ricorda o ha sentito nominare almeno una volta nella propria vita ma è con Butchered at Birth che si vedono, per la prima volta, i Cannibal Corpse nella loro versione futura. Sembra una frase ad effetto, ma non lo è, visto che tutti sappiamo la costanza con cui Webster&Co. hanno fatto uscire dischi di qualità e il percorso evolutivo della band nel corso degli ultimi 30 anni. Il fatto è che proprio nel 1991 i Cannibal eliminano le tentazioni più thrash (il passaggio da Eaten Back to Life a Butchered at Birth lo conoscete, non serve certo che vi ripeta tutto) e si gettano a piene mani nel grande fiume del death metal americano.
Per chi si fosse collegato solo ora e guardasse l’America di oggi, potrebbe pensare il contrario, ma a quel tempo non è che la scena estrema americana fosse un fiume enorme da cui attingere; nel 1992 non c’erano mille band a infestare la scena e neanche mille rigagnoli che andranno a formare derivazioni di genere e sottocategorie: gruppo come quello di Buffalo era, a tutti gli effetti, un prime movers della scena brutal.
Sinceramente non so come fare a ricordarvi di ascoltare Butchered at Birth senza scadere nel banale. Il disco è una fabbrica di riff? Sì, lo è. Le vocals sono inumane? Sì, Chris Barnes, nel corso di un anno, smette di “tentare di cantare” e incomincia a fare quello per cui è conosciuto in lungo e in largo: grugnire come un lavandino ingorgato e sozzo. Una cosa che, ovviamente, funziona alla grande. Poi vedete voi se siete nel team Barnes o in quello di Giorgino Fischer, io dopo un primo attaccamento al growl di Barnes, ho incominciato ad apprezzare quello dell’uomo senza collo, trovandomi in difficoltà su chi considerare adatto al sound dei Cannibal Corpse. Forse forse, ma qua potrei cambiare idea fra 5 minuti, direi che Fischer si adatta alla perfezione all’odierno sound della band, mentre il grugnito catacombale di Barnes era il trademark e il tratto distintivo della prima incarnazione.
Non saprei che altro dire se non questo.
Voi fate partire Meat Hook Sodomy o Vomit the Soul o Covered in Soures, per me è uguale.
[Zeus]


Mass Murder – Extreme Extinction (2020)

Secondo capitolo nella discografia dei Mass Murder.
Il lavoro stavolta è stato fatto a regola d’arte e il primo pensiero che mi è venuto in mente ascoltando il sound di questo platter, è che ho trovato molte analogie, a livello di sound, con l’ottimo comeback degli Electrocution, ovvero Psychonolatry. Le chitarre sono ribassate nell’accordatura per dare una maggior “botta”, mentre la batteria è chirurgica e potentissima. Tutto questo è stato possibile con un accurato lavoro di incisione presso i War Studios, mentre le parti vocali di Aldo Gorgoglione sono state incise presso i Clab Studios da Angelo de Cosimo. La band ha ultimato il tutto con mix e mastering presso i 16th Cellar Studios di proprietà di Stefano Morabito. La musica è un ottimo death metal brutale che ha molte affinità con i Cannibal Corpse, e anche in questo caso i suoni hanno dei punti in contatto con gli ultimi lavori dei deathsters di Buffalo. Le composizioni sono schegge impazzite di violenza inaudita e la doppia cassa in alcuni momenti tocca delle velocità quasi inumane. Non ci sono ammiccamenti a nessuna forma di melodia perché ogni brano è secco, freddo e arido di qualsivoglia sentimento benevolo. La voce di Aldo Gorgoglione è una delle più brutali mai ascoltate in Italia, anche se il suo stile è più “soffocato” rispetto a quello di tanti altri urlatori. Insomma, più in stile brutal che death metal in senso ampio. Il lavoro di chitarra di Francesco Corcio è paragonabile a quello di un muratore che lavora incessantemente per costruire un muro spesso e inscalfibile. Tutto è opprimente e devastante qui dentro, un tunnel senza via d’uscita. 
In tutta questa brutalità, dove sta l’originalità? Non ci sta, punto.
Non è intento di questa band, penso, quello di essere originali, perché nella tracklist non c’è il minimo indizio che potrebbe aprire a questa eventuale ipotesi. Questo Extreme Extinction rappresenta il nostro Paese in ambito death metal molto bene, con brutalità ma anche molta perizia tecnica. A chiunque piaccia questo tipo di sound e si cibi dalla mattina alla sera di Hate Eternal, Cannibal Corpse e Immolation, questo è l’album che devono assolutamente ascoltare. Ben fatto ragazzi!
[American Beauty]

Il ruggito del maiallo. Devourment – Molesting the Decapitated (1999)

Nelle compagnie da pub c’è sempre l’ubriacone perso, quello che quando arrivi al locale è già mezzo sbronzo sullo sgabello. Dopo un brevissimo periodo di pseudo-lucidità, il soggetto passa in moviola (effetto Baywatch) e, nella parlata, incominciano a mancare degli elementi importanti: tipo la grammatica, o semplicemente le parole.
A partire da questo momento si possono prevedere due risultati: il primo è la catalessi dell’ubriacone, perso in un mondo tutto suo fatto di sbronze micidiali e rigurgiti al sapor di bile; il secondo è la possibilità di vederlo barcollare giù dalla sedia e diventare molesto, o violento, per motivi che sfuggono a tutti, tranne che a lui (c’è l’elefante rosa che lo guida).
Nei momenti di lucidità, che sono l’intervallo fra la sbronza del weekend e il rinforzo del mercoledì, non è neanche cattivo. O, almeno, non è detestabile quanto lo è da ubriaco. Ma quando arriva il weekend diventa un’enorme impianto di raffinazione della birra in piscio. Cosa che conosci alla perfezione e che, ormai, è diventato il “grande classico del sabato sera”.
Lo stronzo ubriaco fottuto sono i Devourment.
Dopo un paio di demo, la band fa uscire Molesting the Decapitated, primo LP dei texani. Se non siete dentro il genere, cosa che può succedere, diciamo che i Devourment si buttano a capofitto nel brutal death/slam metal e ci giocano come un maiallo nel proprio sterco. Quando non si giocano le carte su mid-tempo granitici, questi loschi figuri si buttano in accelerazioni devastanti (Choking On Bile).
La ricetta dei Devourment, come capite, è semplice: mid-tempo, break spezzacollo e accelerazioni brutali. Il tutto con la raffinatezza di un puttanone che ti chiede meno di 5 euro per un servizio completo nel retro del pandino 4×4 con le gomme sporche di letame di vacca.
Su questo impianto sonoro, imperversa il grugnito molesto di Ruben Rosas, uno che ha uno scarico ingolfato dove stanno scivolando maiali ancora vivi al posto delle corde vocali. Quando si cimenta nei pig-squeal o cambia registro, oltre ai maiali ci scende giù anche un procione incazzato che gli sta martoriando le corde vocali.
Il connubio, come potete capire, funziona perfettamente.
Il problema di base, ma è una questione di frequentazione musicale, è che a me i Devourment annoiano in pochissimo tempo. Passata la voglia di brutalità e bestialità del brutal, mi dimentico di averli su PC e quindi li risento ogni morte di Papa. Poi mi ritornano in mente, motivazioni a caso, ma non posso certo dirvi che è una voglia assoluta di Devourment.
Ecco perché i texani sono lo sbronzo di turno: lo puoi mettere in mostra come “reperto da pub”, fa ambiente e, quando gira bene, qualche risata te la strappa senza nessun problema. Ah, ovvio, tiene lontani i fighettini con la maglia legata intorno al collo, il mocassino e il risvoltino.
Ma dopo un po’ queste sue caratteristiche lo rendono anche un calcio nei coglioni e ti viene voglia di andartene dal pub e cambiare aria per un po’.
In tutto lo spettro musicale, lo slam (e sottogeneri) non mi ha mai intrigato troppo. Estremo e violento quanto basta, ma non mi metto mai a cercare un CD dei Devourment (o affini) per allietarmi, o farmi dimenticare, la giornata. Questo lo lascio ad altri dischi.
Sono certo che molti di voi sono appassionati di questo genere, ma non è la mia cup of tea.
[Zeus]

Cannibal Corpse – Gallery Of Suicide (1998)

Dopo aver dato alla luce al buon VILE nel 1996, i Cannibal Corpse (con la formazione nuovamente rinnovata, infatti è il primo disco con Pat O’Brien, ex Nevermore, alla chitarra) fanno uscire Gallery Of Suicide. C’è una considerazione da fare ed è semplicissima: dopo anni di dischi eccellenti e fondamentali per la creazione del brutal death (periodo Barnes) ed un Vile ottimamente suonato e con pezzi convincenti, la band americana si trova alle prese con un momento di relativa fiacca compositiva. Non sto dicendo che Gallery Of Suicide sia brutto, anzi, ma non ha la stessa capacità di spaccare il culo come i dischi precedenti. Dalla sua parte ci sono una buona produzione e l’alone “estremo” che ha questo disco (complice anche la copertina oscurata), ma nella sostanza si compone da un inizio veramente forte, il trittico I WIll Kill You, Disposal Of The Body e Sentenced To Burn sono pezzi che ti prendono a calci il cranio senza pietà, ma poi non da seguito a questo inizio col botto. Ci sono degli episodi riusciti e non c’è niente che sia veramente mal fatto o inutile al 100%, ma non c’è neanche un brano che risalti veramente. Non riesco a trovare un pezzo, nella seconda metà del disco – 14 canzoni sono tante, diciamocelo – che sia ricordabile o da inserire in una potenziale “compilation su cassetta” (cazzo che vecchio che mi sento). 
Forse Gallery Of Suicide ha avuto solo la sfiga di uscire dopo Vile o il periodo storico non era giusto, ma nessuna delle due motivazioni/scuse mi sembra realmente valida. Questo disco del 1998 vive sulla botta d’adrenalina che ti arriva addosso con le prime tre song, sul nome che capeggia in alto a sinistra e sulla fama di disco oscurato, ma per il resto si può tranquillamente soprassedere e proseguire nella discografia che, nel caso dei Cannibal Corpse, non ha smesso di essere di medio/alto livello.
Ve lo dico e lo sottolineo: non sono tante le band che possono fregiarsi di essere una band così consistente.
[Zeus]

Cannibal Corpse – Vile (1996)

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La storia di molti gruppi sembra seguire un copione predefinito, non dico di tutti, ma certamente è un buon punto di partenza per molti: la band funziona (o sembra funzionare) e poi il singer, iconico e che incarna parte dell’essenza stessa della band, sbarella e viene cacciato/se ne va. Il problema è quello di riuscire a far superare il trauma alla band e far capire alla gente che, in ogni caso, il gruppo nel suo insieme è più grande del singolo interprete che la definisce. Chiedete informazioni ai Pink Floyd, ai Black Sabbath, ai Morbid Angel etc. Tutte band che, pur privatesi di un elemento fondamentale, sono andate avanti fra alterne fortune.
Cannibal Corpse post-The Bleeding passano attraverso le stesse forche caudine: via Chris Barnes e dentro l’ex Monstrosity George “Corpsegrinder” Fisher. Il cambio ha decisamente giovato alla band che, da quel momento in avanti, non ha smesso di tirar fuori dischi in continuo crescendo (anzi, negli ultimi tempi sembra aver trovato una seconda giovinezza) e il buon Chris Barnes, ottenebrato dalle mille canne che si fa al giorno, si diverte a crear polemica con Dave Mustaine su Twitter e/o produrre dischi con i Six Feet Under, i cui buoni dischi li puoi contare sulle dita di una mano e ti avanzano dita per prospettive future.
Vile del 1996 è questo, il momento del passaggio. Quello che definirà la seconda vita della band con un suono diverso e con un vocalist, Giorgino, che fra un headbanging furioso e l’altro, tira fuori linee vocali più dinamiche del suo predecessore. Ovvio che non possiamo paragonare i due periodi, cazzo (!), perché se da un lato troviamo dischi che hanno messo dei paletti fissi nel death metal, dall’altro non mi va di nascondere il fatto che con Corpsegrinder, Webster&Co. hanno capito che la coerenza, la perseveranza e il duro lavoro sono la ricetta fondamentale per far proseguire una band. E, lo sottolineo, per farle avere il successo meritato.
Perché Vile è un disco che ti prende con Devoured By Vermin (la traccia che tutti conoscono del disco, complice il video, e/o Mummified in Barbed Wire) e poi non ti lascia andare, sia quando accelera sia quando rallenta e diventa una monolitica valanga di frattaglie, sangue e vomito come in Bloodlands (traccia che interpreta bene le due anime).
Il range vocale più ampio di Fisher, meno compresso sul growl sepolcrale e più adatto a seguire la velocità e/o i cambi di ritmo, si può apprezzare anche in Puncture Wound Massacre.
Poi, ovvio, ci sarà sempre la diatriba fra chi apprezza di più il periodo Barnes e chi o non ha preferenze o supporta incondizionatamente il cambio di singer con lodi all’uomo-senza-collo. Questo ci sta, sia chiaro. Quello che però dovete fare, un piccolo dovere morale, è rimettere su Vile e sentirvelo per l’ennesima volta.
Questo lo dovete fare per ricordarvi che è proprio grazie a questo disco, alla determinazione di Webster&Co., al cambio di singer e alcuni grandi pezzi di Vile che i Cannibal Corpse sono la corazzata sanguinolenta che possiamo apprezzare sui palchi.
Non è da poco per essere il primo disco di una formazione, per molti aspetti, nuova.
[Zeus]

Non servono titoli divertenti quando si ha Killing On Adrenaline dei Dying Fetus (1998)

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I Dying Fetus, e lo si è scoperto solo dopo il 2000, avevano un asso nella manica ed era nientemeno che nella persona di Jason Netherton. Il bassista/cantante americano grazie al suo background punk/hardcore forniva la necessaria diversità alle canzoni, tanto che il brutal death metal dei Dying Fetus era lontano mille miglia dal ristagnare in una autoreferenzialità poco soddisfacente in termini musicali. Questo è, ovvio, il mio parere – ci sono molti che ascoltano (e preferiscono) i Dying Fetus post-2000, ma non è il mio caso. Prendete Killing On Adrenaline, disco che compie la bellezza di vent’anni il 27 luglio. KoA ha un groove spaccaossa, passaggi incandescenti e poi via di mazzate nelle gengive e nelle palle: entrambi elementi necessari per un perfetto disco di brutal death metal a mio parere. L’affermazione soprastante, i Dying Fetus erano meglio con Netherton, l’ho potuta verificare anche diversi anni fa quando ho visto la band americana in concerto. La formazione era a tre e proponeva estratti dal nuovo disco e canzoni dal repertorio (ormai) ventennale del gruppo capitanato da John Gallagher: i nuovi pezzi, buoni per carità, non avevano lo stesso tiro di quelli vecchi. Se poi portiamo il confronto fra i nuovi Dying Fetus e i Misery Index (la band di Netherton post-Dying Fetus) nel periodo prima del 2010, si può dire che i Misery Index non annoiano una volta che sia una, mentre sparano fuori quelle cartucce cariche e potenti che i Dying Fetus faticavano a tirar fuori dal cilindro.
Ma il confronto e le pippe mentali del dopo non servono a niente mentre si ascolta Killing On Adrenaline. Il disco risente di entrambe le influenze, quella più classicamente death di Gallagher e l’imbastardimento hardcore/grind di Netherton, e il mix regge e funziona alla grande. Ogni traccia dei 34 minuti scarsi del disco non cede un millimetro e quanto più ci si addentra nei territori death metal, quanto più il retroterra grind esce a far da contraltare e così anche i testi ispirati di Netherton (scrittore che si farà valere anche nei Misery Index con brani sociali).
Se volete godervi un sano momento di sputo di bile verso l’industria musicale che, con perizia, cerca di farci ingoiare tonnellate di merda sperando di farci esclamare anche “che buona”, sentitevi Kill Your Mother, Rape Your Dog.
Tutto il resto suona di grande classico e, ve lo posso anticipare senza paura di spoiler, verrà replicato anche Destroy The Opposition del 2000 – ultimo disco ad avere la line-up capitanata dal duo Gallagher – Netherton. Dopo di questo, la divisione e i dubbi se continuare a seguire i Dying Fetus (e la loro impostazione più death-oriented) o mettersi alle calcagna di quelle bestie assassine che sono i Misery Index.
Scegliete voi… o anche no. A me basta una cosa: prendetevi 30 minuti di tempo, attaccate lo stereo e date una rispolverata a Killing On Adrenaline.
I ringraziamenti potete mandarmeli su Facebook.
[Zeus]

Deicide – In The Minds Of Evil

L’ho già detto altre volte, arrivo a recensire i dischi quando cazzo ne ho voglia. Non prima, non dopo. Sono perfettamente a tempo.
Stesso discorso con questo “nuovo” disco dei Deicide: In The Minds Of Evil. Avevamo lasciato la band con To Hell With God e la sua vena che insaporiva il death floridiano nel thrash e lo farciva con la parte melodica fornita da Santolla; la ritroviamo senza Santolla (entrato negli Obituary e non senza polemiche…) e con Kevin Quirion al suo posto (già nei Deicide in diverse occasioni) ed una attitudine meno thrasheggiante.
Di dischi Top dei Deicide non se ne vede l’ombra da epoche storiche, ma ormai mi sono abituato a questa mancanza. Il suo metadone più efficace è sempre lo stesso: aspetto un nuovo disco di Benton&Co che grattuggia amenità varie, lo classifico come nuovo episodio di sopravvivenza della “band” e lo lascio grattare come un cinghiale nello stereo per quanto basta. Sono un inguaribile romantico quando mi ci metto.
Direte voi: che comportamento irresponsabile verso una band storica! Lo so. Ma vorrei sottolineare che la pazienza non aumenta come le barre energetiche dei videogame. Al massimo cala. Mantenerla costante è una grande caratteristica per una band che, di stronzate, ne ha pubblicate nel corso degli ultimi anni.
Asheim rimette al centro del discorso il nostro grande amico Capro e la band decide di fare una produzione grezza quanto basta. Mossa efficace? Senza dubbio. Di dischi pulitini e carini ce ne sono anche troppi in questo mondo, qualcuno che puzza di sterco di Capro ci vuole. Anzi, mi ci vuole. E pazienza se i Deicide sono anni che boccheggiano nel tentativo di sparare fuori cartucce di fiero death metal dei vecchi tempi.
Vorrei mettervi dell’avviso dei momenti peggiori: il riff di Godkill è talmente abusato che vi farà fare una compilation di bestemmie e anche Kill The Light Of Christ non è che vi risparmi dallo snocciolare il vostro particolare rosario.

Finisco dicendo una cosa banale, non sarà un capolavoro, ma compratelo. Anche solo per mettervi a posto la coscienza dall’aver acquistato a scatola chiusa quell’orribile pila di merda di vacca dell’ultimo disco dei Morbid Angel.

LINEUP:
Glenn Benton – basso, voce
Kevin Quirion – chitarra
Jack Owen – chitarra
Steve Asheim – batteria

TRACKLIST:
In The Minds of Evil
Thou Begone
Godkill
Beyond Salvation
Misery Of One
Between The Flesh And The Void
Even The Gods Can Bleed
Trample The Cross
Fallen To Silence
Kill The Light Of Christ
End The Wrath Of God