Sempre con un pizzico di nostalgia… Motörhead – Inferno (2004)

Come faccio a recensire un disco dei Motörhead? Questa è la domanda che mi porto ogni volta che mi salta all’occhio che sta per cadere il compleanno di uno degli album della band di Lemmy. E poi Mr. Kilmister ha ormai lasciato questa terra nel 2015 sancendo definitivamente che di Highlander su questa terra ne esiste uno solo e si chiama Keith Richards. Io ero certo che anche Lemmy fosse immortale, non poteva che essere così visto lo stile di vita, ma così non era. Quello che rimane immortale, invece, è la sua musica. E che cazzo, fatemi essere sentimentale e un po’ con la frase ad effetto, tanto le utilizzano tutti ‘ste stronzate per riempire righe su righe di cose che comunque tutti sanno. Il problema è rendersi conto che non si è i primi a parlare di un certo disco, quindi non tiratevela troppo, stiamo comunque tutti sulla stessa barca e i Motörhead c’erano ancora prima e, quella barca, hanno contribuito a costruirla.
Dopo il per me buono Hammered, Lemmy & Co. decidono di pestare ancora di più il piede sull’acceleratore e mettere ben in chiaro che l’album precedente non era un fuoco di paglia e che di carburante ne avevano più che a sufficienza, anche se la lancetta del contachilometri di Lemmy segnava quasi 60 primavere. Però cosa conta il tempo mortale per uno che, di mortale, non aveva niente?
Ecco perchè Inferno, 18simo album in studio, è un gran disco. Forse non eccellente in tutta la sua durata, ma ha quella carica da dinamite nelle vene e voglia di headbanging che mi piglia sempre di buon umore. Anche l’incursione blues su Whorehouse Blues non difetta di charme, pur sembrando a tutti gli effetti una outsider in un disco pompato con dosi massicce di testosterone come Inferno.
Anche a vent’anni di distanza, la tracklist tiene botta senza problemi per almeno 8 tracce, prima di trovare un un duetto di canzoni in cui vacilla leggermente. Il problema è il raffronto fra il quasi speed metal di Fight e la successiva In The Year of the Wolf: pur trascinata da una buona linea vocale di Lenny, il brano è poco performante. Più o meno lo stesso discorso lo potrei fare anche per Keys to the Kingdom, bluesy ma non riesce ad imprimersi realmente. Molto meglio la seguente Smiling like a Killer, veloce, dritta e senza troppi fronzoli. Quello che mi aspetto dalla band.
Inferno non sarà l’album definitivo dei Motörhead, non può esserlo neanche a volerlo. Il passato non si cambia ed è irraggiungibile, ma sfido voi a trovare una band che è riuscita a tenere botta per, allora, quasi trent’anni e tirar fuori un 18simo disco di questo tipo: ispirato, veloce, che sa di strada, alcol e cupa ironia. In altre parole sa di Lemmy e Motörhead e, per dei sessantenni, è un grossissimo complimento vedendo quanto producono altre band quando raggiungono quelle primavere.
Mentre voi andate su Youtube/Spotify/Apple Store o a cercarlo su CD, io mi riascolto Killers. Torno un po’ più giovane e rallento un po’ anche io la lancetta del tempo che passa.
[Zeus]

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