Esplorando il lato oscuro, 50 anni di The Dark Side of the Moon (1973)

A questo disco non ci sarei mai arrivato in età precoce se, un giorno, mio padre non mi avesse messo sotto il naso il CD e detto di ascoltarlo. Probabilmente perchè quello che stavo sentendo al momento faceva cagare a spruzzo, che ne so, non mi ricordo, ma il sentiti i Pink Floyd me lo ricordo. E da quel momento non è stato amore incondizionato, come si potrebbe pensare leggendo una recensione commemorativa dei 50 anni di The Dark Side of the Moon, ma è stato un lungo lavorio che mi ha portato prima a dire: Cristo è ‘sta cosa?, poi un più semplice Secondo me è quasi troppo raffinato per un buzzurro come me e poi un lapalissiano, The Dark Side of the Moon è un grandissimo disco. Intendiamoci, a 50 anni di distanza questo LP dei Pink Floyd è senza ombra di dubbio un disco enorme, complesso da sentire anche se dura poco più di 40 minuti e non è un minutaggio astronomico per una band che butta su disco un concept come quello contenuto qua dentro. Waters e Gilmour lavoravano ancora in maniera decente insieme, cosa che incomincerà a deteriorarsi con il passare del tempo e che culminerà con il difficile The Final Cut uscito una decina d’anni dopo e che vede Waters lasciare definitivamente la band al suo destino. Destino non culminato nell’autodistruzione, come arrogantemente pensato da Roger, ma in un lentissimo spegnersi con soli tre dischi fra il 1987 e il 2014. Cosa che comunque ha dimostrato che nessuno, nemmeno un compositore ispirato come Waters, è più grande e importante della band stessa. Tutti importanti, ma nessuno indispensabile si diceva un tempo.
Nel 1973, però, i Pink Floyd erano ancora una band che vedeva il futuro chiaro e preciso, andando a puntare il dito contro i grandi demoni dell’umanità, le sue paure, le sue idiosincrasie e malattie, tanto che queste ultime, nella forma della pazzia, sono un chiaro riferimento a Syd Barrett, ormai ridotto all’ombra di sé stesso.
The Dark Side of the Moon è talmente ispirato da essere semplicemente una sequela di singoli in formato concept (per quanto molti siano improbabili e impensabili, come Us and Them – singolo che, nel 2020 non trovereste su nessuna radio); anche le canzoni più “strane”, per l’ascoltatore distratto moderno, portano in dote melodie e accessibilità incredibile, sfido a non rimanere ammaliati di fronte a Breathe o agli ormai stra-conosciuti vocalizzi di Clare Torri su The Great Gig in The Sky. E così via fino quasi alla fine, dove entra a gamba tesa Roger Waters e l’atmosfera è leggermente diversa (come sempre quando è il solo Roger a mettere mano e voce ai brani).
I Pink Floyd sono talmente in forma che tutto sembra nascere, ed evolversi, con una semplicità quasi ridicola. I brani strumentali sono fondamentali al passaggio fra una parte e l’altra del disco, e i quattro inglesi maneggiano il rock (progressivo? psichedelico?) con mano ferma e sicura, tanto da gestire bene sia canzoni complesse, sia episodi più pop e facili (termini da prendere cum grano salis, ma che descrivono bene il grado di facilità d’ascolto) come Money o Time. Nota a margine per Time: questa è stata utilizzata dal sottoscritto come sveglia mattutina per quasi 20 anni, prima di capire che alzarsi con il cervello preso a sberle da mille sveglie non è proprio il veicolo migliore per una giornata sorridente. Per carità, mi svegliavo senza problemi ma i traumi che mi ha lasciato sono enormi. Inoltre Time l’ho utilizzata spesso e volentieri come per “calibrare” l’equalizzatore dell’Hi-Fi, insieme a Voodoo Child (Slighty Return) di Jimi Hendrix, capendo che tutto stava andando bene quando sentivo i vetri della credenza di casa dei miei che ballavano il twist.
Se vogliamo, dopo una serie di brani che sono semplicemente strepitosi, arriva la doppietta firmata (e cantata) da Roger Waters: Brain Damage e Ecplise. Il bassista inglese è sempre stato più carismatico che bravo a cantare, ma entrambe le tracce sono perfettamente inserite nel contesto di The Dark Side of the Moon – pur, se dovessi ammetterlo a cuore aperto, non sono mai state le mie due canzoni preferite di tutto il CD.
50 anni e non sentirli, questo è l’esatto esempio di come descrivere un capolavoro. Poi ci sarà sempre quello che dice che li preferisce in Animals o The Wall o Wish You Were Here, ma, per me, The Dark Side of the Moon ha un valore che va al di là del semplice concetto di capolavoro musicale tout-court, è il collegamento fra vecchia guardia e il sottoscritto, è lo scoprire il valore di musica fuori dai miei confini naturali e un momento della giovinezza. Forse è questo quello che descrive realmente un capolavoro. O, almeno, quello che per me è la definizione di capolavoro.
[Zeus]

Lascia un commento