Cinquantenni col capello grigio. Led Zeppelin – House of the Holy (1973)

A partire da Led Zeppelin IV, il mio interesse per la band è andato in scemando. Vuoi che non ho mai digerito troppi le soluzioni sempre più “ricercate e frizzantine”, vuoi perchè John Paul Jones è un compisitore con i controcoglioni ma, in fin dei conti, i Led Zeppelin mi piacciono di più quando vanno sul confine del pacchiano con i testi hippy di Plant o si cimentano nelle ormai riconosciute sortite “furtaiole” nel mondo del blues. Però Houses of the Holy, pur avendo già brani che non ascolto da una vita e mezza, è un Lp che tiene botta. Eliminadomi dalla retina la bruttura del film The Song Remains The Same, il vero apice dell’ego ipertrofico di tutta la crew dei Zeppelin, e rimanendo sulle canzoni, Houses of The Holy contiene una buona dose di classici immortali. Pur concedendosi delle sperimentazioni bislacche che, immagino, alle orecchie di uno che ascolta il disco nel 2023 ed è arrivato ai Led Zeppelin tramite Whole Lotta Love o Stairway to Heaven devono suonare alquanto strane e problematiche da digerire. Però tenete presente che quello era il 1973, un anno in cui l’onda reggae tirava ancora forte ed una D’yer Mak’er aveva, in fin dei conti, un senso compiuto. Che poi sia genuinamente paradossale e divertente da sentire è secondario. Chiaro che non la considero neanche lontanamente un capolavoro, ma è imbevuta dello spirito dell’epoca. O, per meglio dire, risente dei fumi di quel determinato periodo storico. Guardate quanti musicisti/artisti del Commonwealth hanno fatto la valigia direzione tropici (due su tutti, Keith Richards per la musica e Ian Flaming per la scrittura) e capite che quel genere era IN e stava tirando belle testate nei denti ai vecchi del rock (chiedete ai Black Sabbath, e alla loro frustrazione, di quegli anni). Però, nel ’73, gli Zeppelin avevano ancora da giocarsi le ultime carte “Hammer of the Gods” e quindi dentro Houses of the Holy trovate la fredda e vichinga No Quarter, sorella (minore?) di quella Immigrant Song ormai entrata nell’immaginario collettivo. Pur diametralmente opposta a Immigrant Song, No Quarter è una canzone che funziona, tanto da essere rifatta da dei pesi massimi come i Crowbar. Però tanto è pesante e dolente nella versione New Orleans, quanto è fredda quella dei Led Zeppelin, con un John Paul Jones sugli scudi e sempre più protagonista della direzione musicale della band. Senza fare un track-by-track che odio, sappiate che Houses of the Holy è l’ultimo Lp che regge sulla lunga distanza e nel tempo, pur evidenziando già il processo di cotonatura dei capelli che farà saltare la festa dei “dinosauri d rock” con l’arrivo del punk. Già il successivo Physical Graffiti (1975), che per ironia della sorte contiene la title-track del presente disco, zoppica fortemente e ha solo pochissime perle da presentare al mondo (In My Time Of Dying, giusto per citare una delle canzoni degli Zeppelin che più mi piacciono), mentre il resto si perde in mille brani sperimentali, bellini e che piacciono ai tipi raffinati, ma ad un buzzurro come me il coefficiente “figo” pende realmente verso il basso o il nullo. Page e Plant tentarono di riportare il dirigibile a dritta nel ’76 con il crudo (e rock) Presence, ma fu un fuoco fatuo visto che il 1979 segnerà il ritorno alle sonorità più complesse e, come tutti sappiamo, sarà l’ultimo disco in studio prima della morte di Bonham. Houses of the Holy compie 50 ann e pur mostrano capelli grigi, rughe e il passo pesante del cinquantenne un tempo dedito all’alcol, regge bene e si fa trovare in molti episodi ancora fresco e ispirato. [Zeus]

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