Alabama Thunderpussy – Fulton Hill (2004)

Ammettiamolo senza diventare rossi, preferiamo i dischi vecchi degli Alabama Thunderpussy, ma questo Fulton Hill lo teniamo nel cassetto perchè ha un feeling diverso rispetto ai primi quattro che portavano fieri la bandiera dell’incesto campagnolo e delle sbronze prese con il liquido del radiatore. Fulton Hill è più rock, più Lynyrd Skynyrd, più classico se vogliamo ma senza perdere di vista il suo essere figlio sporco e pieno di pidocchi del rock’n’roll.
Il cambio di singer non sposta troppo gli equilibri, non come un Leonardo Bonucci per intenderci, visto che John Weills esibisce un timbro scorticato dal sole, maschio quanto basta, corposo e sempre sul punto di essere in preda al delirium tremens e, quindi, in pieno stile ATP (e vagamente sulla scia di Throckmorton). Weills ha il solo difetto di essere arrivato su un disco dopo River City Revival che, da solo, mette sotto scacco tutta la discografia degli Alabama Thunderpussy (compreso l’ultimo Open Fire con Kyle Thomas degli Exhoder). Il secondo LP sotto Relapse Records sembra avere un po’ le polveri bagnate, con uno strumentale melodico e rilassato di oltre 4 minuti posto in apertura di disco (Such is Life) e poi si risveglia con uno scatto di nervi (R.R.C.C., molestata dal growl canino di Weills) e giù discorrendo fra pezzi con maggiore tiro (Wage Slave, Blasphemy, Sociopath Shitlist o Bear Beating, canzone che avrei visto bene anche su River City Revival) e altri più tranquilli (Three Stars e lo strappacuore Alone Again).
Non tutto il disco gira alla grande: Infested e Lunar Eclipse sono ATP sui generis e debolucce, mentre Do Not è buona musicalmente ma John, fino a quel momento a suo agio, non regge il passaggio all’acustico e tirar via il piede dal catarro non lo aiuta.
Chiude Fulton Hill la lunghissima Struggling For Balance, epica stoner sudista e sudata in equilibrio fra applausi e sfiancamento.
Nella discografia degli ATP, Fulton Hill ha una posizione ibrida e la mantiene anche a 20 anni di distanza. Unico album con John Weills e con questo suono, visto che Open Fire cambierà la rotta adattandosi di più all’ugola di Thomas, Fulton Hill ha meriti innegabili sia musicali sia d’affetto (nei ricordi è legato ai primi anni del 2000), mentre in termini di pura storia degli Alabama Thunderpussy è difficile trovargli una collocazione fissa. Si gioca il posto con Costellation e Staring at the Divine ma, e lo dico oggi e potrei cambiare idea domani, Fulton Hill ha dentro meno brani bomba, ma più costanza e pezzi che hanno il tiro. Come detto, potrei cambiare idea domani, intanto tenevi questo giudizio.

P.S: scopro oggi, da Metal Archives, che gli Alabama Thunderpussy si sono riuniti nel 2022 con la formazione di Open Fire. Per me, questa, è una buona notizia.
[Zeus]

Trentenni sudisti. Lynyrd Skynyrd – The Last Rebel (1993)

A seguito del ritorno in pista (sic) con l’album Lynyrd Skynyrd 1991 e visto che il southern era ancora terreno caldo da battere, i Lynyrd Skynyrd cominciarono a tirar fuori dischi a cadenza triennale. Un bene? No di certo. La formazione post-incidente era composta da buona parte della vecchia cricca di redneck della prima ora (quindi tutti quelli che, in un modo o nell’altro, hanno reso grandi i Lynyrd Skynyrd), ma è anche vero che le idee si sono disperse nell’aria dell’autunno del 1977. The Last Rebel, A.D. 1993, prosegue sulla scia del precedente: un solo brano che realmente si fa ascoltare senza troppi lamenti (la title-track), mentre per i restanti 44 minuti scarsi sono solo canzonette che arrivano a malapena a salutare i brani più “deboli” di Gimme Back My Bullets. Cosa volete farci? Il 1993 era comunque un anno difficile per tutto quello che non era alternative, Pantera o nu-metal, figuriamoci per “residuati bellici” dell’epoca hippy. Non fraintendetemi, io adoro i Lynyrd Skynyrd storici, sono una di quelle band che dovrebbero essere portate a scuola e fatte suonare perchè hanno quel qualcosa in più; e non rompetemi il cazzo con il fatto che la The Allman Brothers Band era tutt’altra cosa. Lo so anche io che cazzo di chitarrista era Duane, ma io adoro comunque Allen Collins e il suo stile sul palco, tutto sberle, grinta e assoli da capogiro. Torniamo a The Last Rebel, che è meglio. Il disco è prodotto bene e con lo stile moderno dei Lynyrd Skynyrd, quindi suono grosso, chitarre lucenti e tutto un feeling che è quasi un incontro fra Last Vegas e Nashville. Non proprio da rebel rebel, ma è funzionale al nuovo corso della band.
Ed King e Rossington la fanno da padrone in sede di scrittura, aiutati da Johnny Van Zant e da Donnie Van Zant (terzo dei fratelli e leader dei 38. Special). Se non si può discutere sulla bravura e pulizia del duo sudista alla chitarra, né del resto della band se per questo, il punto più confortante e che distanzia questo LP da 1991 è che Johnny comincia a mostrare un pizzico in più di personalità; il problema è che, avendo sentito i dischi anche del repertorio del 2000, questo è il massimo che ha raggiunto in termini di evoluzione e di modulazione della voce. Tono roco, sudista (sentitevi Born to Run, peraltro una delle canzoni più riuscite fra quelle dimenticabili di The Last Rebel), caldo e che prova un po’ a farti ricordare Ronnie, ma è tutto qua sul piatto, non c’è molto altro da scoprire.
The Last Rebel è il tentativo di tenere alta la bandiera conferata con lo sforzo congiunto di tutti i membri superstiti della formazione originale. Però il tempo è cambiato, il 1993 di Bill Clinton non era il 1970 della guerra del Vietnam e di tutto il turbinio sociale e mentre prima i Lynyrd Skynyrd erano dei Re Mida che riuscivano a trasformare in oro quello che toccavano e arrivando a far tremare le gambe ai The Who, adesso non sono altro che dei Street Survivors. La band del 1990 tenta di portare avanti la tradizione, di essere a tutti i costi i Lynyrd Skynyrd, ma sembra essersi dimenticata di cosa l’ha fatta diventare realmente grande.
[Zeus]