Rossometile – Gehenna (Independent, 2024)

I Rossometile ormai sono una realtà super collaudata in ambito gothic/symphonic metal. Provenienti da Salerno, nel corso di quasi trent’anni di carriera hanno saputo ritagliarsi una buona fama a suon di ottimi album, e quest’ultimo “Gehenna” non fa altro che confermare l’ottimo stato di salute della band. Anzi, il loro stile in questo album viene portato ad un livello superiore sia in fatto di produzione che di qualità delle singole composizioni. Inoltre si ha la sensazione che la band abbia voluto rendere il proprio trademark più “commerciabile”, andando a sconfinare spesso e volentieri sia nel tipico symphonic metal al femminile che in altre derive del metal più attuale e moderno.
Se da un lato la band non abbandona le proprie radici e anzi, le arricchisce con influssi epici e progressive, dall’altro lato i pezzi appaiono molto più fruibili e in un certo senso lineari rispetto al passato. La band sembra non avere più quell’aura estremamente intimistica ma anche un po’ criptica del passato, e anche se un pezzo come “Sangue e Seduzione” è agli antipodi rispetto ad una “Duet With Satan”, in quanto la prima canzone è semplice e moderna e la seconda molto più strutturata e non di facilissima assimilazione, in generale l’album riesce ad intrattenere dall’inizio alla fine grazie all’ottima vocalità di Ilaria Hela Bernardini e in generale grazie ad una prova maiuscola di tutta la band.
In generale questo è un album che riesce ad unire ipoteticamente sia gli ascoltatori del metal gotico più tradizionale che quelli che amano la frangia più orchestrale e melodica del genere, andando a scomodare mostri sacri come Epica e Lacuna Coil, ma con bellissimi testi rigorosamente in italiano. Insomma, album imperdibile per i fan del genere.

[American Beauty]

Arcane Tales – Until Where the Northern Lights Reign (2024)

Che cosa posso dire degli Arcane Tales che non abbia già detto in passato? La creatura di Luigi Soranno, che è una one man band, è tra le migliori che potete trovare in ambito power metal sinfonico. A due anni di distanza dal precedente Steel, Fire and Magic torna con Until Where The Northern Lights Reign, e lo fa nel migliore dei modi. Il nuovo album è carico, ispirato e quella contaminazione estrema che già nei lavori precedenti avevo apprezzato, qui si fa ancora più marcata in The Dark Portals of Agony, in cui la voce in screaming che si alterna a quella in clean sopra un epico tappeto di chitarre e tastiere crea situazioni che riportano alla mente i Bal-Sagoth.

Il lavoro di Soranno alle chitarre è sempre notevole, è una fucina di riff, assoli, linee melodiche e quando arrivano le parti in cui è lo strumentale a prevalere, non annoia ne stucca perché non è mai fine a se stesso. Porto come esempio Last Shàranworld’s Hope, ma non è l’unico caso, dove gli intrecci tra chitarra e tastiera sono molto coinvolgenti. I brani sono come sempre compatti nella durata, ci sono poi un ballad ben fatta, We Will Meet Again, e una suite più lunga posta in chiusura, la title track. Tutto come da copione, tutto ben realizzato. Una menzione merita anche l’ottima prestazione vocale. Non so che altro dire per non diventare ripetitivo, la qualità del lavoro di Soranno è sempre alta e il nome degli Arcane Tales spero goda di considerazione sempre maggiore tra gli appassionati di queste sonorità.

[Lenny Verga]

Phoebus The Knight – Ferrum Fero Ferro Feror (2023)

Ferrum Fero Ferro Feror è l’album d’esordio dei francesi Phoebus The Knight, che segue l’EP The Last Guardian uscito un anno fa. Etichettata come symphonic power metal, la loro musica in realtà offre molto di più. L’intro Antelux porta alla prima traccia, The Beast Within, che introduce già diversi elementi: inizia come un pezzo power abbastanza canonico a cui si aggiunge una voce da basso, caratteristica fondamentale che all’inizio potrebbe lasciare un po’ spiazzati. Ma a spiazzare ancora di più è un piccolo accenno di death melodico e la voce in growl che fa, per il momento, una piccola apparizione, ma che sarà presente maggiormente in altre tracce. 

L’album procede su coordinate che mettono in primo piano melodia, orchestrazioni e le doti canore del frontman. La quarta traccia, The Scarlet Dance, allarga ulteriormente i confini: ad un’impostazione classicamente symphonic power, con tanto di cori, si aggiungono parti in growl, un intermezzo recitato e una parte strumentale folkeggiante che funziona bene. Altro pezzo interessante è Darkness Will Prevail, che alterna parti fortemente teatrali a sfuriate melodic death. The Queen of The Black Sun supera gli otto minuti di durata ma ha dalla sua delle belle linee melodiche e la parte parte metal è tra quelle che meglio emergono in tutto l’album. Massacres de Septembre è un pezzo drammatico, evocativo ed è l’unico cantato interamente in francese.

Ferrum Fero Ferro Feror è un album che eccede un po’ in teatralità e con gli arrangiamenti. Calcare di più la mano sulla parte metal secondo me avrebbe giovato, ma il mestiere che c’è dietro è indubbio. I Phoebus The Knight hanno tratti in comune con i Powerwolf, per alcune cose anche con i The Vision Bleak per quanto riguarda la drammaticità, e sicuramente con i nostrani Rhapsody (che siano Of Fire o i Turilli/Lione), per quanto riguarda l’impianto power sinfonico, e se vi piacciono questi riferimenti, non esitate ad ascoltarli. 

[Lenny Verga]

Kate Nord – Compass To Your Heart’s Desire (2022)

Kate Nord è una cantante finlandese di stanza in Italia e per il suo album d’esordio si è avvalsa di un ensemble tutto tricolore. Compass To Your Heart’s Desire farà felici tutti i fan che si sentono orfani dei Nightwish dei primi tempi, e ce ne sono tanti. Il contenuto dell’album viene descritto come Symphonic Fantasy Metal perché per i testi prende spunto dal folclore nord europeo e dalla letteratura fantasy, mentre musicalmente punta sulla melodia e l’immediatezza. Otto brani più un intro e poco più di mezz’ora di musica rendono l’ascolto scorrevole e piacevole, se siete amanti del genere. 

Il punto di forza dell’album sta sicuramente nelle indiscutibili doti canore di Kate, veramente brava sotto ogni aspetto. La cantante fa un lavoro degno di nota, vario nelle situazioni, nelle sfumature e nelle emozioni. la mia impressione è stata che, però, tutto il resto passi un po’ troppo in secondo piano, ad eccezione degli arrangiamenti orchestrali. Il lato power metal infatti, riesce a emergere davvero solo in alcuni momenti, in All AloneWither and Rust (che vede come ospite Timo Tolkki), Dance of the FairiesAeternam Vale, negli assoli di chitarra di Dream of Daylight mentre altrove sembra svolgere il semplice ruolo di base per la voce, per quanto ben fatto. Ed è un peccato perché quando riesce a spiccare, l’elemento metal convince, ma essendo in pratica un album solista, può anche andare bene così, se questa era l’intenzione.

Compass To Your Heart’s Desire è un album ben realizzato, ben suonato e prodotto, che soddisferà senza dubbio gli estimatori del genere, mentre gli altri possono passare oltre.

[Lenny Verga]

Ravenlight – Immemorial (2023)

Oggi su The Murder Inn torniamo a parlare di metal sinfonico, croce di molti e delizia di pochi, cercando di farlo sempre in modo obiettivo, per quanto difficile, quando si tratta di un genere così discusso. Questa volta è il turno degli irlandesi Ravenlight, band attiva dal 2018 e che non si è certo risparmiata, arrivando oggi con Immemorial alla quarta release ufficiale, con due EP e due album all’attivo.

L’impegno a quanto pare li ha ripagati, vista l’accoglienza positiva che hanno ricevuto finora, sia in patria che fuori, tanto da vederli come supporter live di nomi del calibro di EvergreyCruachan e Firewind. Power metal quindi, sinfonico, con accenni al prog, una via di mezzo tra i Nightwish meno pretenziosi e i Kamelot, con un cantato esclusivamente femminile. La cantante Rebecca Feeney segna già un punto a favore dei Ravenlight grazie ad una varietà espressiva che non la relega al solito (mezzo)soprano ma le permette di spaziare (più una Floor che una Tarja, per rimanere in tema). 

Chitarre e tastiere sono opera di John Connor che, occupandosi di entrambi, riesce a creare un buon equilibrio, con una predilezione per le prime come è giusto che sia, ma dando il giusto spazio anche alle seconde (le note di pianoforte alla base di Paper Ships fanno un gran lavoro), creando anche intrecci tra le due che favoriscono l’eleganza e la melodia alla pomposità. E qui arriviamo ad un altro punto a favore: i Ravenlight non appaiono mai esagerati, pomposi, eccessivi. Sono sempre sobri, equilibrati, emozionali senza essere stucchevoli e con una solida base metal fatta di chitarra-basso-batteria. I brani, dieci in tutto, non eccedono mai in durata, se si esclude la conclusiva e classica suite Springtime Lament che comunque funziona benissimo e che è probabilmente tra le migliori dell’album.

Immemorial è un lavoro  molto melodico senza essere banale, con una buona scrittura alle spalle, che senza stravolgere le regole, ma con consapevolezza e padronanza dei mezzi porta a casa un bel risultato. Chi non apprezza il genere non cambierà idea ascoltando i Ravenlight, chi invece lo ascolta o lo ascoltava troverà una band che lo tratta in modo più maturo rispetto a tanti altri. 

[Lenny Verga]

Kaledon – Legend Of The Forgotten Reign – Chapter VII: Evil Awakens (2022)

Non so quante volte ho ricominciato questa recensione, che arriva con estremo ritardo rispetto all’uscita dell’album in questione. Il motivo è presto detto: non sono mai stato un grande fan dei Kaledon. Niente di personale contro la band, è più una motivazione legata al genere di appartenenza che, nel periodo di massimo splendore, mi portò alla saturazione dopo anni passati ad apprezzarlo. Senza contare che nei primi 2000 in campo power e symphonic metal la concorrenza era spietata e c’era decisamente di meglio in giro.

Fatto sta che alla fine del 2022, dopo che ormai avevo perso di vista la band già da un po’, mi capita tra le mani il nuovo Chapter VII: Evil Awakens da recensire. Al primo ascolto rimango stupito da quanto esce dalle casse e mi chiedo se la mia volontaria astinenza quasi totale dal power sinfonico mi abbia ammorbidito, ma dopo qualche replay i dubbi si sono dissipati: mi trovo davanti un ottimo lavoro e una band matura sotto ogni aspetto, che ha fatto passi da gigante.

La prima cosa che mi ha colpito è stato il suono pesante delle chitarre e il loro macinare riff, ma riff “veri”, che funzionano da soli, non una semplice base per orchestrazioni e tastiere, un sound che a volte sa quasi più di classico e roccioso heavy che del solito, canonico power, in alcune occasioni arrivando anche a giocare sui confini del thrash, soluzioni che mi hanno riportato alla mente certe cose dei Blind Guardian. In altre occasioni, invece, si spingono verso lidi più estremi, idea forse non più così originale oggi, ma sempre ottima per movimentare l’album ed espandere i propri orizzonti. Se il lavoro sulle chitarre è di gran livello, altrettanto lo è quello della sezione ritmica, granitica e con una potenza che raramente nel power si sente: batteria e basso non perdono mai di incisività. 

Al netto di qualche ritornello un po’ scontato, ci troviamo di fronte a uno dei migliori album in campo power/symphonic metal degli ultimi anni, compatto, ben composto e ottimamente suonato, che grazie alla varietà delle orchestrazioni e delle linee vocali sa essere epico, evocativo ma anche oscuro. Una bella sorpresa!

[Lenny Verga]

Imperial Age – New World (2022)

Gli Imperial Age sono una band di origine russa che attualmente risiede in Turchia e che, a quanto si legge dalla bio, negli ultimi anni non se l’è passata molto bene, essendo passata attraverso vicissitudini non proprio felici. Ma nel loro caso la musica ha comunque vinto, almeno per quanto riguarda la release del nuovo album. New World è il terzo full-lenght, che esce a quattro anni di distanza dal precedente The Legacy of Atlantis e addirittura a dieci dal debutto Turn The Sun Off!.

Gli Imperial Age suonano un metal epico e sinfonico che si colloca a metà tra i primi Nightwish e i Therion. Già qui immagino il pubblico che si divide tra chi non apprezza il genere e chi invece lo adora, senza troppe vie di mezzo. Io personalmente ho sempre adorato i Therion, nonostante i numerosi passi falsi nelle produzioni più recenti (devo ancora sentire Leviathan II), mentre per i Nightwish provo sentimenti contrastanti, apprezzandoli a fasi alterne.

La particolarità della band è la presenza di ben tre cantanti, due donne e un uomo, a cui si affiancano batteria, basso e chitarra, più le varie orchestrazioni. New World è un album molto melodico ma mai banale, che per struttura mi ha ricordato i Therion: una solida base metal sopra la quale si stendono strati di orchestrazioni, linee vocali e cori. A seconda dei momenti si passa dall’epico al drammatico, spesso raggiungendo un mood da colonna sonora e le melodie rimangono impresse già al primo ascolto. Certo non hanno la stessa oscurità che gli svedesi riuscivano ad imprimere nella loro musica in tempi migliori, ma probabilmente non è nemmeno nell’intento degli Imperial Age

New World mi è piaciuto (perché a me il metal melodico, quando è fatto bene, piace, non ho problemi ad ammetterlo a differenza di un sacco di gente là fuori) proprio dove Leviathan non era riuscito: è un album con una direzione precisa, con pezzi convincenti ed energici, senza cali dall’inizio alla fine e, anche se la parte metal fa per lo più da sfondo, quando emerge si fa notare, che sia per le accelerazioni, che per le linee melodiche della chitarra e pure  per gli assoli. Nel complesso pecca un po’ in varietà e qualche parte un po’ più heavy ce l’avrei messa, ma speriamo nella prossima volta.

[Lenny Verga]

Eleine – Dancing in Hell (2020)

Terzo album per questa band svedese che propone un symphonic metal che si accoda al filone dettato da band come Epica o Nightwish, ma che a mio avviso riesce a proporre qualcosa di interessante e che al limite prende spunto da altre band, senza però copiare nessuno. Inutile girarci attorno, la forza di questa band sta nella bellissima voce della altrettanto bellissima e sensuale cantante Madeleine “Eleine” Liljestam, che offre una prestazione cristallina e sempre ispirata, capace di far innalzare i brani di questo album di parecchi punti.
Interessante è comunque tutto il comparto strumentale: la sezione ritmica è dura, precisa e robusta, e le chitarre hanno un sound massiccio. Il tutto assume connotati sia epici, sia malinconici, inseriti in pezzi che hanno sempre qualcosa da offrire, sia quando sono più diretti e melodici (Enemies), sia quando addirittura flirtano con il metal estremo (Dancing In Hell). Quando la band diventa più cattiva si sfiorano certe atmosfere alla Behemoth, ma è bene precisare che qui parliamo della versione soft e delicata di quella band, non vi è l’intransigenza sonora di generi quali il death o il black.
Ottime sono anche le orchestrazioni, che danno quel tocco barocco e magniloquente che non stona affatto con la musica che ci viene proposta, ma anzi ne amplifica le qualità. E’ utile avere anche una voce maschile in growl come quella di Rikard Ekberg, in modo tale che nei momenti più intensi l’alternanza di voce femminile pulita e voce maschile da orco raggiunga un climax ideale per i vari momenti dell’album e il variare tra di essi. In definitiva, questo Dancing In Hell è un disco davvero ben realizzato, che potrà piacere non solo agli amanti del metal più melodico, ma anche ad altre fasce di metal fan. Un album epico, potente e malinconico che vale assolutamente almeno un ascolto per essere scoperto. Chissà, magari scatta poi la sintonia da parte di molti. Non ne rimarrei sorpreso.
[American Beauty]

Luca Turilli – King Of The Nordic Twilight (1999)

Non ho mai nascosto il mio apprezzamento per il secondo album dei Rhapsody, Symphony of Enchanted Lands, che so benissimo essere quanto di più paragonabile ad un blockbuster hollywoodiano in ambito musicale. Quel disco epico, melodico, pompatissimo è per me anche un simbolo di bei tempi e bei ricordi di gioventù. 
Ci vollero solo due dischi prima che uno dei due mastermind della band, Luca Turilli, cadesse in tentazione si lanciasse in un progetto solista.
Ovviamente da fan della band madre, mi precipitai a procurarmi King of the Nordic Twilight appena uscì. “Luca Turilli è un chitarrista”, pensavo dentro di me, “sarà un album incentrato un po’ di più sulla chitarra rispetto ai Rhapsody” pensavo ancora, “sarà più heavy, altrimenti che senso avrebbe?” dicevo convinto tra me e me. Coglione. Io, non Turilli.
Perché il buon Luca è libero di comporre e suonare la musica che vuole.
Il mio pensiero era quanto di più lontano dalla realtà. L’album solista del nostro guitar hero infatti si rivelò ancora più barocco e, in alcuni casi, “tastieroso” (Accademia della Crusca, sono qui!) degli album dei Rhapsody. E con meno chitarre. In teoria il lavoro avrebbe dovuto comunque piacermi. Ma in pratica? In pratica ci troviamo di fronte ad un album che sembra una copia sbiadita dei Rhapsody: ultra melodico, con meno idee, l’ennesimo concept fantasy, una voce un po’ anonima (non che Olaf Hayer non sia un bravo cantante, ma è uguale a tanti altri), ritornelli stucchevoli, cori a non finire, scale alla Malmsteen piazzate un po’ in giro, ma poca botta e poco pathos. 
Certo ci sono dei pezzi azzeccati e che ancora oggi sono validi esempi di power/epic/symphonic metal, a partire dall’intro To Magic Horizon, dalla prima track Black Dragon, e dalla titletrack, ma ci sono anche pezzi fin troppo ruffiani come Legend of Steel e The Ancient Forest of Elves, o banalotti come Lord of the Winter Snow o la zuccherosissima ballad Princess Aurora.
Sia chiaro, in questo album non troverete musica brutta, assolutamente! Ma è uno di quei CD che a distanza di anni non mi viene mai voglia di ascoltare, se mai mi ascolto Symphony of Enchanted Lands (o qualche altro lavoro dei Rhapsody) che, secondo me, è molto meglio!

[Lenny Verga]