Morcolac – Drawbridge to Citadel of No More Dawn (2024)

Vampiri e black metal, ed è subito anni ’90! Battute a parte, per me è sempre stato un connubio azzeccato, che ha dato vita ad album memorabili in casa Cradle Of Filth, cioè tutta la produzione compresa tra il 1994 e il 1998, e che anche in casa nostra ha avuto i suoi portavoce, come i Theatres Des Vampire. Ed è proprio dall’Italia che provengono i Morcolac, che non ci pensano minimamente a ricalcare il lavoro dei nomi sopra citati ma percorrono una propria via, giunti con questo Drawbridge to Citadel of No More Dawn alla terza pubblicazione ufficiale. Si tratta di un EP, ma è abbastanza consistente per contenuto e durata.

L’EP si apre con la strumentale Witchblessed Nightwaltz, giocata quasi interamente sui synth, che ci introduce in un paesaggio gotico e decadente, dagli accenti medievaleggianti. Si passa poi a Memorialmoon Narrates the Morbose che, a sorpresa, è uno sparatissimo black costruito su riff e velocità in cui la parte sinfonica ricopre un ruolo minore. Dungeon Dustears rallenta i tempi, porta i synth in primo piano, introduce chitarre armonizzate e linee melodiche più marcate, portando alla mente i Summoning. Queste sono le caratteristiche con cui prosegue il disco, prima di dare spazio alla cover di The Chant of Barbarian Wolves dei Satanic Warmaster e giungere alla conclusione con un’altra strumentale di synth a chiudere il cerchio.

Drawbridge to Citadel of No More Dawn è un buon lavoro che non deluderà gli appassionati di symphonic e atmospheric black. Grazie alle sue atmosfere ha un che di colonna sonora, qualcosa che starebbe bene come commento musicale a un episodio della serie Castlevania. Adesso attendiamo un LP.

[Lenny Verga]

Scarlet Anger – Martyr (2024)

Oggi The Murder Inn vi porta in Lussemburgo per la terza release degli Scarlet Anger, band attiva dal 2007 e dedita ad un thrash metal di stampo classico. In Martyr però non troverete solamente tupatupa ed accelerazioni perché i cinque sanno bene come combinare a questi elementi melodie, groove, rallentamenti e scrivere anche dei buoni riff. The Destroyer apre il disco nel più classico dei modi e fa il paio con No Time, e dalla seguente title track si notano strutture più ricercate, riff articolati e il tutto suona estremamente naturale. Un elemento che ho gradito molto è il timbro vocale di Joe Block, roco e graffiante, che mi ha ricordato Chris Boltendhal dei Grave Digger ai suoi tempi migliori. Si nota poi una sorta di epicità nella musica degli Scarlet Anger, e un alone oscuro che travalica il semplice thrash, un po’ come se il sound di Kreator e Testament si fondesse a quello dei Rage e dei sopracitati ‘Digger. Il risultato convince, perché è vario ma senza perdere di vista il focus del “metallo che spacca”, perché è comunque di thrash che stiamo parlando. Martyr è un album bilanciatissimo, sette pezzi per trentacinque minuti, e riesce mantenere costante la qualità del songwriting senza cedimenti. Le performance dei musicisti sono ottime e ascoltando e riascoltando i pezzi si notano tanti piccoli particolari in merito a ognuno. Gli Scarlet Anger sono stati una bella sorpresa e l’ascolto è consigliato a chiunque.

[Lenny Verga]

Arcane Tales – Until Where the Northern Lights Reign (2024)

Che cosa posso dire degli Arcane Tales che non abbia già detto in passato? La creatura di Luigi Soranno, che è una one man band, è tra le migliori che potete trovare in ambito power metal sinfonico. A due anni di distanza dal precedente Steel, Fire and Magic torna con Until Where The Northern Lights Reign, e lo fa nel migliore dei modi. Il nuovo album è carico, ispirato e quella contaminazione estrema che già nei lavori precedenti avevo apprezzato, qui si fa ancora più marcata in The Dark Portals of Agony, in cui la voce in screaming che si alterna a quella in clean sopra un epico tappeto di chitarre e tastiere crea situazioni che riportano alla mente i Bal-Sagoth.

Il lavoro di Soranno alle chitarre è sempre notevole, è una fucina di riff, assoli, linee melodiche e quando arrivano le parti in cui è lo strumentale a prevalere, non annoia ne stucca perché non è mai fine a se stesso. Porto come esempio Last Shàranworld’s Hope, ma non è l’unico caso, dove gli intrecci tra chitarra e tastiera sono molto coinvolgenti. I brani sono come sempre compatti nella durata, ci sono poi un ballad ben fatta, We Will Meet Again, e una suite più lunga posta in chiusura, la title track. Tutto come da copione, tutto ben realizzato. Una menzione merita anche l’ottima prestazione vocale. Non so che altro dire per non diventare ripetitivo, la qualità del lavoro di Soranno è sempre alta e il nome degli Arcane Tales spero goda di considerazione sempre maggiore tra gli appassionati di queste sonorità.

[Lenny Verga]

Poorhouse – XII (2024)

Gli intenti dei polacchi Poorhouse sono lodevoli: non essere categorizzati in n nessun sottogenere del metal e far sentire all’ascoltatore qualcosa di fuori dall’ordinario e svuotato da qualsiasi complessità artificiale. Ma occhio, ragazzi miei, a non fare troppi casini perché diciamolo già, il risultato non convince del tutto. XII, a dispetto del titolo, è il primo album della band e presenta luci e ombre fin da subito. Partiamo dalla prima traccia, Asylum In Your Head: c’è il violoncello, che personalmente ho apprezzato, un basso virtuoso (costante in quasi tutto l’album) che diventa presto ingombrante, dei riff di chitarra minimali ma non particolarmente ispirati, una voce che vuole essere teatrale e versatile ma che fatica a toccare le giuste corde. Fortunatamente la situazione migliora nella successiva Gluttony, che ha linee di chitarra sempre minimali ma più convincenti e un bel ritornello, melodico e che rimane in mente grazie anche ad un lavoro del singer decisamente migliore, un pezzo che si fa ascoltare e riascoltare volentieri. Bleeding Colossus non mi ha suscitato particolare interesse mentre NoName invece risolleva di nuovo in parte le sorti dell’album, con le sue velleità barocche e da colonna sonora e un bel gioco tra chitarra, batteria e violoncello, nonostante un ritornello poco incisivo. Migraine è una strumentale che ha poco da dire. Per quanto mi riguarda XII prosegue senza particolari guizzi fino alla penultima traccia, Open The Cage, che mi è piaciuta. Chitarre acustiche, linee vocali che finalmente colpiscono nel segno, basso sborone non pervenuto. Sebbene XII non mi abbia convinto del tutto, del buono l’ho trovato. Indubbiamente c’è del sentimento, ci sono delle buone idee, riesce a trasmetterti qualcosa. Buono e comprensibile l’intento, la strada si intravede, la personalità pure ma il songwriting è da sviluppare ed affinare ancora.

[Lenny Verga]

Smorrah – Welcome To Your Nightmare (2024)

Singolare la storia discografica dei tedeschi Smorrah: hanno pubblicato un EP nel 2018, un singolo nel 2020, un live nel 2022 e arrivano oggi a rilasciare il primo full lenght. Se il titolo dell’album inevitabilmente ci fa ricordare un certo album di Alice Cooper, Welcome To Your Nightmare gira su tutt’altre sonorità. Il quartetto si cimenta in un ben calibrato mix di thrash e death metal bello incazzato e carico e con un occhio di riguardo tanto alla tradizione, quanto alla modernità. Il disco si apre con una doppietta spaccaossa, la title track e la seguente Dead Snake Eyes che mettono subito in chiaro le intenzioni e le caratteristiche della band: pestare duro, spargere follia e una notevole capacità di esecuzione. Si passa poi ad esplorare territori più melodici con la seguente Age of Decay che, almeno secondo me, ha qualcosa di swedish nel suo DNA. Gli Smorrah non indugiano però troppo nel melodico e riprendono a pestare duro, a sfruttare qualche mid tempo (Buried Underneath), rallentamenti doomeggianti (la parte iniziale di Death Awaits) e, fondamentalmente, a pompare groove e a indurre all’headbanging chiunque sia in ascolto. Solamente nella conclusiva When the Tide Comes In la band si concede ancora un’apertura verso il melodico ma, come possiamo immaginare, sono solo respiri tra una sferzata di violenza e l’altra.

In Welcome To Your Nightmare troviamo una proposta onesta, appassionata, una band consapevole dei propri mezzi, sia nel songwriting che nell’esecuzione che, anche senza sconvolgere il mondo del metal, dimostra un gran lavoro sulle chitarre, macinando riff e assoli, una sezione ritmica potente ed un cantante in grado di destreggiarsi in ogni situazione. In definitiva un album che può incontrare i gusti di un sacco di metalhead dalle diverse inclinazioni, salvo i puristi forse, ma quelli non vanno d’accordo nemmeno tra di loro. Bel lavoro.

[Lenny Verga]

No Man Eyes – Harness The Sun (2023)


Terzo album in dieci anni per i liguri No Man Eyes, quindi un buon traguardo. La band sembra aver assimilato la lezione di formazioni come Communic, Nevermore e Symphony X, sviluppando un concetto di power/progressive/thrash metal sempre in evoluzione, come anche conferma la bontà e la complessità di questo album.

Il disco, che poggia le basi su un concept di natura sci-fi, si divincola attraverso dieci episodi che convincono grazie ad une perizia tecnica entusiasmante e ad una vena compositiva che sembra sgorgare senza limiti. Chitarre rocciose molto vicine al thrash moderno che potrebbero anche ricordare qualcosa dei Testament sono messe in primo piano, ma è un po’ tutto l’insieme che funziona, grazie anche ad un continuo lavoro di arrangiamento che lascia estremamente soddisfatti.

La voce rimane leggermente indietro, forse anche volutamente. Fabio Carmotti è un buon cantante ma non si mette in mostra con chissà quali vocalizzi esasperati, ma cerca semplicemente di evidenziare maggiormente la vena quasi drammatica di alcune composizioni. Proprio questo differenzia questa band da tante altre, ovvero il riuscire a coniugare potenza e atmosfere plumbee e a tratti apocalittiche. Circa tre quarti d’ora di ottimo metal quindi, e che è molto affine alle formazioni che citavamo in apertura, quindi chi è appassionato di quelle band in questo album potrà sicuramente trovare qualcosa di interessante.

In ogni caso Harness The Sun rimane una buona dimostrazione di metal contemporaneo e che guarda al presente e al futuro, quindi è adatto un po’ a tutti coloro che non vogliono ascoltare sempre la solita band con le stesse soluzioni stilistiche. Qui si cerca un percorso personale, e ciò riesce molto bene a questa band. Consigliato.

[American Beauty]

Nur NH – Unbroken EP (2023)

Non la volevo fare questa recensione, infatti il file è fermo nel mio pc da novembre. Non la volevo fare inizialmente perché si trattava di un EP di soli quattro pezzi e di solto evito; poi perché musicalmente si discosta parecchio dai miei ascolti; poi perché, incuriosito dall’arrivo di una proposta così singolare, e dato che non sono una persona superficiale, ho comunque voluto avere qualche informazione in più. E quello che ho scoperto, tramite quel poco disponibile in rete, mi ha lasciato prima interdetto, poi indeciso se fosse questo il luogo adatto per trattare certi argomenti sensibili. Alla fine ho deciso che, visto che su The Murder Inn non ci poniamo mai limiti, si poteva fare.

Nur NH, o più semplicemente Nur, è una cantante originaria del Borneo. Tra il 2007 e il 2013, dopo aver inciso un EP è stata attiva musicalmente dal vivo tra Indonesia, Stati Uniti ed Europa. Poi è sparita nel nulla. Questo perché, per dieci lunghi e dolorosi anni, è stata vittima di abusi e violenze domestiche. Io non voglio neanche pensarci, non posso immaginare. Ma del resto non è niente di nuovo, purtroppo. La differenza, rispetto a tante altre vittime, è che Nur è riuscita a scappare da quella situazione, a mettersi in salvo, a iniziare a rimettere insieme i pezzi della propria esistenza. La musica ha un ruolo molto importante nella vita di chiunque, può essere una forma di terapia, ancora di più per chi ha subito traumi, e per chi, come lei, ha visto la propria arte, la propria passione portate via e distrutte dalla persona che invece avrebbe dovuto amarla e proteggerla.

Secondo un’intervista che ho trovato in rete, la sua rinascita artistica è iniziata con un brano, I’m Done With You, in cui la cantante racconta la propria esperienza e che ha dedicato a tutte le vittime di violenza nel mondo. Ha girato anche un video, con pochi mezzi a disposizione ma con costumi originali del Borneo (quindi siate clementi nel giudicare, lo linko qui sotto alla recensione), ma che riesce a comunicare il messaggio. Ma la musica com’è? Fermo restando che a questo punto non so quanto possa realmente contare, I’m Done With You è una bella canzone che ricade in quella zona di confine tra il metal e la musica rock e pop più mainstream, in quella fascia dove possiamo trovare anche Evanescence e Rammstein. Ci sono chitarre elettriche e elettronica, proprio come la band tedesca, ci sono melodie che entrano subito in testa come con la band di Amy Lee e la voce di Nur ha una sua personalità. Ovviamente non sto facendo paragoni, sto solo inquadrando, ma il pezzo potrebbe benissimo essere trasmesso per radio e ottenere consensi, data anche la produzione soddisfacente. I’m Done With You riesce nell’intento di trasmettere la sofferenza, di toccare l’ascoltatore, sia con la musica che con le parole.

Il secondo brano, e secondo singolo, che è stato scritto per dare forma a questo Unbroken EP è The Dark Is Like A Fire e cambia completamente registro. La prima metà della canzone è di sola voce e piano, mentre la parte rock subentra più in là. Se concettualmente continua il discorso iniziato con il pezzo precedente, si entra in territori molto più soft e sempre più lontani dalla nostra musica preferita. Dal punto di vista prettamente musicale, non me ne voglia l’artista, devo dire che la parte interessante finisce qui e già siamo un gradino sotto rispetto a prima. I restanti brani virano verso un semplice soft rock che purtroppo non hanno lo stesso appeal dell’inizio. Possiamo però ringraziare Nur per il suo interesse verso la lingua italiana: Un Vero Amore ha il titolo in italiano, è cantata quasi tutta in inglese, eccetto un paio di frasi alla fine. Tra l’altro non è il suo unico tentativo di cantare nella nostra lingua.

Alla fine quello che conta è che Nur abbia ricominciato a cantare e suonare, e anche in diversi in diversi ambiti, dal rock, al sinfonico, all’acustico, fino a collaborare con una cover band australiana dei Rammstein, e che si sia ripresa la sua vita. Adesso avrà tutto il tempo di maturare e crescere artisticamente. Le auguriamo tutto il bene possibile e, perché no, di rivederla di nuovo sulla nostra rivista. Chiedo scusa ai lettori per la lunghezza dell’articolo e spero di non aver turbato e/o indignato nessuno. No alla violenza, sempre e comunque, nei confronti di tutti.

[Lenny Verga]

Executus – The Black Throne Of Chaos Abandoned (2023)

A volte sono principalmente le sensazioni a guidarti per parlare di un disco, più che le descrizioni e dichiarazioni che arrivano dalla band/casa discografica/distributore. Il debutto discografico degli australiani Executus, dal roboante titolo The Black Throne Of Chaos Abandoned di sensazioni me ne ha date diverse, prima di tutto quella di riuscire piuttosto bene dove nomi ben più noti non riescono più a convincere. Prendete il thrash metal e mischiatelo al death melodico, metteteci non troppi velati omaggi ai Metallica del periodo Ride The Lighting – Master Of Puppets, aggiungete l’idea di base al sound degli Arch Enemy, quella che ha funzionato bene solo nei primi dischi, e avrete quello che, secondo me, è il sound degli Executus (poi tra le ispirazioni della band vengono citati i Metallica, e qui ci ho preso, Sepultura, Skeletonwitch, insomma la band di Mr. Ammott l’ho sentita solo io, ma non importa). Ed è proprio alla band svedese che mi riferivo nel mio paragone qualche riga sopra.

Il quartetto di Adelaide mi ha dato la sensazioni di quello che avrebbero potuto fare gli Arch Enemy se avessero badato un po’ meno alla forma e un po’ di più alla sostanza, se non fossero diventati così fighetti. In The Black Throne Of Chaos Abandoned trovano posto riff e melodie, soli di chitarra in quantità e armonizzazioni, accelerate e rallentamenti, c’è pure la voce in screaming, con qualche aggiunta di growl e clean. Ma soprattutto ci sono pezzi convincenti, niente di straordinario o rivoluzionario, sia chiaro, ma hanno sostanza. L’elemento thrash poi contribuisce ad ingrossare e incattivire i pezzi, a dare carattere, a conferire la botta e lo fa molto bene. Un buon disco che merita una possibilità.

[Lenny Verga]

Wet Cactus – Magma Tres (2023)

Appassionati di stoner, sludge, desert rock, il nome Wet Cactus potrebbe essere già noto a qualcuno. La band di Cartabia, Spagna, giunge con Magma Tres al terzo album in studio in dieci anni di attività e, se già con i due precedenti lavori, l’omonimo esordio (2015) e Dust Hunger and Gloom (2017), si erano fatti notare ed apprezzare anche otre oceano, con questo nuovo disco non possono fare altro che confermare quanto di buono già detto su di loro in passato. Dopo essersi concentrati sull’attività live, la band è tornata in studio carica e sia sente.

L’intero ascolto è un susseguirsi di riff che sanno di sgommate su strade polverose, olio motore, pistoni ruggenti, insomma l’immaginario lo conoscete già. Quello che forse non ci si è aspetta è la notevole varietà che i Wet Cactus riescono ad inserire all’interno del genere, non ponendosi problemi ad accelerare, a pestare pesanti sulle corde e i tamburi, a gettarsi nell’hard rock più sporco e grezzo, a cacciarci pure una bella strumentale, Mirage, virtuosismi alle chitarre, per non parlare della prova dietro al microfono del singer, che condivide una certa affinità con il nostro Madman. Magma Tres è un album da sparare a pieno volume, da urlare al cielo, da ululare alla luna, psichedelico ed accattivante (la conclusiva Solar Prominence è un trip assurdo), che non può essere ignorato da chi apprezza queste sonorità.

[Lenny Verga]

Il Nome della Fossa. Michele Borgogni – Kebabbari vs Alieni (Autopubblicazione/2021-2023)

Alvaro è uno studente universitario non proprio costante, anzi per niente, trasandato e squattrinato, alla ricerca di un lavoro perché la famiglia gli ha tagliato i fondi. Trova un annuncio per apprendisti dal suo kebabbaro di fiducia, Ahmed, che lo assume in nero e sottopagato. Questa svolta in meglio nella sua vita coincide con la misteriosa sparizione di diverse persone e con l’arrivo nel suo appartamento di Mary, una gnocca stratosferica, che sembra non avere una casa a cui tornare. Per non parlare dell’immensa astronave a forma di carciofo che compare sopra la città.

Kebabbari vs Alieni di Michele Borgogni è un romanzo di fantascienza ricco di umorismo, citazioni della cultura pop, birra, panini unti e traboccanti, biancheria intima e musica (dal punk, al crust, dal death metal al black, dai Gazzosa agli Obituary, passando per gli Impaled Nazarene, la colonna sonora è un elemento costante di tutta l’avventura). Ma non è tutto qui. Profondamente dedito a Guida Galattica per Autostoppisti di Douglas Adams, l’autore infarcisce la storia di trovate bizzarre ed esilaranti, di creature strambe e di situazioni assurde. Alvaro, Ahmed, ATA, Mary e Mei formano una squadra sgangherata e disomogenea come poche, ma sono l’ultima speranza per salvare il nostro pianeta.

L’edizione speciale del 2023, di cui sono orgoglioso possessore, con tanto di dedica ed autografo, ha dei contenuti aggiuntivi, come ogni specialediscion che si rispetti: un nuovo epilogo che in realtà… è il prologo del prossimo capitolo delle saga, Il Kebabbaro al Termine dell’Universo di prossima uscita! In più ci sono tre racconti di altrettanti autori ambientati nello stesso universo. Stefania Toniolo (di cui sentirete presto parlare con il suo nuovo romanzo in arrivo), Mirko Sgarbossa e Alessandra Mazzilli si sono prestati alla causa dei kebabbari, inoltre sono presenti le linee guide per il gioco di ruolo a cura di Iacopo Frigerio. Che volete di più?

[Lenny Verga]