All I hear is Buuuurn!. I 50 anni di Burn dei Deep Purple (1974)

Avete presente quando c’è un compleanno importante che si tende a presentare tutta la storia del personaggio in questione per poi fargli gli auguri e guardare al futuro? Ecco, non è questo il caso, perchè parlare di Burn dei Deep Purple a 50 anni dalla sua uscita è sconsigliabile ad ogni sano di mente. E anche se io non sono proprio la stella più brillante della torta, non mi metto certo a mettere il culo nelle pedate. Però è interessante vedere che nel febbraio del 1974 il mondo era tutto sommato abbastanza tranquillo, se non teniamo conto i problemi di Nixon con il Senato per il caso Watergate, un po’ di iniziative nel mondo arabo e, soprattutto, l’esordio di una delle serie culto delle mattinate: Happy Days. Quanti di voi, da una certa annata indietro, hanno approffitato delle mattinate a casa malato per guardarsi una scarica di serie Tv fra cui ovviamente anche le repliche delle repliche di Happy Days? Io non so quante volte ho visto Fonzie, Richard e tutta la compagnia festante. Sono un ricordo indelebile.
Un po’ come lo è Burn dei Deep Purple, e sto parlando della canzone in questo caso. Un inizio così è difficile da riscontrare al giorno d’oggi, ce ne sono di brani forti, ma una Burn ha le stigmati della canzone epocale. Nella discografia della band inglese non penso ci sia una canzone d’apertura che possa tenerle testa, per gusto personale potrei dire che forse la sola Highway Star riesce nel compito di non sfigurare ed essere l’eccezione che conferma la regola.
Non sono mai stato un fan ardente dei Deep Purple, ne riconosco l’importanza vitale nella musica, ma il mio cuore ha sempre battuto per i quattro di Birmingham. E questo anche se Iommi & Co. non erano, musicalmente, all’altezza delle vette di Blackmore, Lord e compagnia. Il duo Coverdale – Hughes vince il confronto vocale con Ozzy ogni giorno e in quanto ad abilità come chitarrista c’è di che discutere fra la chitarra ad impostazione classica di Blackmore e i riff heavy di Iommi. Se la giocano realmente alla pari, ma Blackmore ha una tecnica incredibile. E poi, Cristo, c’è John Lord. E Paice vogliamo dimenticarlo?
Se poi tenete conto che nel 1974 i Deep Purple avevano anche appena fatto fuori un duo come Ian Gillan – Roger Glover, non proprio due scappati di casa, avendo il coraggio di sostituirli con due sconosciuti, capite che razza di rischio e che vincita per Blackmore. Ma sapete anche voi che il rapporto fra Gillan e Blackmore non è mai stato fra i più rilassati, concentrati com’erano a fare un gara a chi ce l’avesse più lungo. E Blackmore, fino ad un certo punto, ha vinto a mani basse. Questo ovviamente prima di essere semplicemente messo alla porta e sostituito senza nessun rimpianto con Steve Morse. Il chitarrista ex-Kansas e Dixie Dregs era decisamente più tranquillo del turbolento neropece-crinito chitarrista inglese. Vagli a dare torto ai Deep Purple, a leggere la biografia non autorizzata di Ritchie Blackmore, ti viene solo da esclamare che il tizio era uno stronzo. Geniale, ma uno stronzo. Cosa che comunque pensi anche a leggere le dichiarazioni di Gillan, solo che l’epiteto lo rivolgi all’attuale cantante dei Deep Purple, anch’egli un concentrato di ego sotto pressione spinta.
Burn è un disco che ti fa mette in mostra il futuro virato al funky-boogie degli inglesi (la vera svolta arriverà con Stormbringer), ma rimanendo abbastanza blues-hard rock da non tirare due schiaffi troppo forti ai fan. Io ve lo chiedo, sapendo già la risposta: come fai a non innamorarti di questa svolta una volta sentita?
Il carico d’adrenalina forse è stato diminuito (anche se la sola title-track è un cosa tipo speed), non ci saranno le badilate hard rock di In Rock o di Fireball, o anche un riff come quello di Smoke on the Water, ma Burn ha i coglioni fumanti e lo dimostra senza neanche arrossire nel corso di tutti i 42 minuti abbondanti di durata. Funk, boogie, blues, manciate di rock, arrangiamenti sopraffini e tutta la crema possibile: ecco una descrizione papabile di Burn. E poi vogliamo parlare di una Mistreated? Che parte a bollore leggero, mettendoti sulle spalle un plaid caldo caldo di blues che pian piano ti scalda le vene, le ossa e fa aumentare il pulsare del cuore. Io lo so, e tu che leggi anche, che quel sobbollire non è che un’anticipazione di quello che verrà, del vero caldo che poi salirà dai lombi in su. Un pezzo semplicemente eccezionale che si va ad inserire di prepotenza nelle grandi ballad blues dei seventies.
Se non vi è ancora venuta la voglia di rimettere su Burn ed ascoltarvelo al volume che gli è naturale, e quindi alto!, avete un bidone dell’immondizia al posto del cuore.
[Zeus]

Cinquantenni coi baffi. Deep Purple – Machine Head (1972)

Sputo fuori immediatamente la cosa, almeno potete andare a farvi una birra se quello che dico vi scazza o continuare a leggere se proprio non riuscite ad andare a cagare bene. Della sacra triade dell’hard rock britannico, i Deep Purple sono la band che ascolto meno. E, se dovessi dire quale “mi piace meno”, Gillan e soci sono i favoriti nel pool. Non ci posso fare niente.
Adesso, per chi si è sentito toccato nel vivo, ci sono altre mille webzine dove leggere recensioni, per gli altri possiamo andare avanti.
Con l’affermazione che i Deep Purple siano il gruppo inglese hard rock che mi piace meno del trio fondamentale per la cultura musicale di ogni singolo essere umano vivente non sto dicendo che mi fanno cagare e neanche che la loro influenza o importanza sia tutto meno che fondamentale. Il mio è un semplice giudizio di gusto e quanto suonano i Purple è un po’ lontano dalle mie coordinate musicali che, sempre e comunque, trovano sollievo nei riff di Iommi e dei suoi Black Sabbath. Questione di gusti e di campanilismo. E anche la lotta fra Led Zeppelin e Deep Purple viene vinta da Page&Plant.
Da qui il mio essere sempre restio nel trattare l’argomento Purple, perché al di fuori di certe canzoni e di certi dischi epocali senza se o ma, l’ascolto è, per me, tutt’altro che naturale. E sì che dal vivo sono una band di signori, come ho avuto modo di constatare personalmente in una serata travagliata in quel di Trento (una cosa tipo millemila anni fa, accompagnato all’epoca da quella vecchia carcassa di TheCrazyJester). In un contesto difficilissimo, con l’impianto che saltava ogni 3×2, i Purple hanno continuato il concerto con una professionalità stupefacente e con un’ironia non da poco, vedasi come si è presentato Ian Gillan sul palco… il suo corredo era ai limiti dell’imbarazzo, ma tanto lui è Gillan e quindi può farlo.
Vi giuro, dopo quel concerto i punti che Gillan&Co. hanno acquistato sono stati realmente tanti.
Se qualcuno, che è riuscito a durare fin qua prima di finire la carta igienica, si sta chiedendo che ne è della recensione di Machine Head, vorrei far notare che questo LP ha una cosa come 50 anni sulle spalle e non conoscerlo è cosa da DASPO. Anche solo perché contiene Smoke on the Water, sì questa canzone è contenuta su Machine Head e visto che quel riff è talmente conosciuto/abusato da essere “quasi irritante” è cosa buona e giusta almeno sapere da dove proviene. Poi forse, se non siete appena scesi dalle grotte di Marte, vi verrà anche la tentazione di sapere perché tutti, a buon ragione, si esaltano sentendo Highway Star e già sarete sulla buon strada e da qui è tutta salita, perché Machine Head è un disco che ti frega in molti modi. Non è un LP di semplice hard rock (ma quale lo era dei Deep Purple? Forse i primi, ma anche qua…), né un ascolto facile visto che il tempo che i vari musicisti passano a far assoli e jam session è decisamente elevato. Tanto che non è proprio buttato nel vento il concetto che Ian Gillan, su Machine Head, sia colui che, fra tutti, ha meno spazio e meno visibilità. Certo, su Smoke on the Water ci mette del suo e tenta dare grinta ad un testo “banalotto”, ma sembra non proprio ispiratissimo e quella visibilità che guadagna se la mangia Il Riff e quindi tanti saluti, mentre nel resto è un profluvio di jam e parti strumentali (sentitevi Lazy, che con la sua enorme impronta blues lascia pochissimo spazio alle parti vocali del singer britannico). Anche Blackmore, a parte quel riff che è il momento dove si sente in maniera evidente il suo tocco hard rock, lavora molto sottotraccia e si concede a beneficio della canzone, supportando il lavoro enorme della parte ritmica (Glover-Paice-Lord) e prendendosi il palcoscenico quando partono le jam session. La già citata Highway Star è esemplificativa del tutto, visto che Blackmore esce allo scoperto solo al quarto minuto della canzone e non passa di certo inosservato.
Non credo che ci sia molto da dire oltre su Machine Head, questo è un LP che, almeno una volta nella vita bisogna ascoltare, poi potete decidere se tenerlo in toto o estrapolarne delle canzoni – come ho fatto io, ad onor del vero-, ma è innegabile il suo valore e la sua impronta storica. Forse forse non sarà il miglior disco dei Deep Purple, ma è lassù in cima e con 50 primavere sulle spalle non smette di ispirare migliaia di ragazzi/e nei negozi di chitarre di tutto il mondo.
[Zeus]

Il Nome della Fossa: Jerry Bloom – RITCHIE BLACKMORE, la biografia non autorizzata (Tsunami edizioni)

Un giovane che a scuola non eccelle in niente, decide di applicarsi allo studio della chitarra ed eccellere in quello.
Ci riesce e diventa Ritchie Blackmore. Il Man in Black suona un po’ con chiunque ed ovunque, finché non decide di formare la sua band: i Deep Purple. A seconda degli umori, poi, la lascia, ne cambia i componenti, ne forma un’altra, smembra anche la seconda e cambia componenti come cambia mogli e compagne; tutto va dove lo porta l’ego, fino ad atterrare in una band di musica medievale con la moglie e con la suocera come manager.
Il nostro protagonista può tutto questo perché, come detto prima, è Ritchie Blackmore.
Il libro è dettagliato, ben scritto, con racconti delle varie tournée, dei vari aneddoti sulla nascita di dischi che rimarranno incastrati nella storia, ma il protagonista è molto metodico e soprattutto non è molto simpatico, quindi non aspettatevi libri come le biografie di Ozzy o Lemmy; perché sì, anche qui ci sono camere di albergo distrutte, ma non perché il protagonista è un simpatico cazzone, ma perché voleva fare una bastardata ad un collega.
Insomma non è certo un simpaticone, una persona con cui vorresti berti una birra in compagnia, ma rimane Ritchie Blackmore.

[Skan]