Alcol, botte da orbi e droghe, in altri termini: Lynyrd Skynyrd – Second Helping (1974)

I Lynyrd Skynyrd sono una delle band della vita. Lo so, fino ad ora ne ho parlato abbastanza male o in maniera estremamente critica, ma c’è una bella differenza fra i Lynyrd Skynyrd pre-incidente aereo e quelli successivi. Un’enorme differenza. Non che fino al terribile giorno del 1978 non ci siano stati momenti di calo in casa Skynyrd, Nuthin’ Fancy o Gimme Back My Bullets non sono sempre all’altezza della fama della band, ma è indubbio che questi due LP “deboli” mangiano in testa a tutta la discografia post-reunion. Questo perchè, pur avendo ancora 2/3 dei chitarristi originali (Rossington, Ed King), mancava la capacità nel songwriting di Ronnie, la vena compositiva di Steve Gaines (che aveva portato freschezza ad una formazione debilitata da abusi e continue lotte) e l’estro di Allen, che ormai non era più della partita causa invalidità causata da un incidente in auto. Non è poco, signori miei. Se posso fare un paragone “estremo”, guardate cosa è successo a band come i Metallica o gli Slayer dopo la morte di uno dei membri più importanti del gruppo.
Ma non salto troppo avanti nel tempo. Adesso siamo nel 1974 e i Lynyrd Skynyrd sono una band che semplicemente spacca. Il tour americano come suppporto agli Who non solo aveva messo i floridiani sul radar, ma aveva addirittura messo una bella paura agli Who (spesso e volentieri surclassati dalla furia esecutiva degli Skynyrd). Il disco d’esordio, senza mezzi termini una bomba, era ancora caldo essendo uscito l’anno precedente e Van Zant e soci decidono di battere il ferro finchè è caldo e mettono a ferro e fuoco il Record Plant in California e continuano la collaborazione con Al Kooper. Cooperazione che potrebbe essere descritta come turbolenta, per usare termini generici, o una rissa senza quartiere per una migliore visione d’insieme. Second Helping è un disco che prende subito ed è un LP che distrae, ma non per colpa sua. Distrae perchè dei Lynyrd Skynyrd cosa si conosce? Sweet Home Alabama e poi? Il vuoto che si forma dietro quella canzone è così grande da far cadere nell’errore anche appassionati di musica a tutto tondo. Il fatto è che dentro Second Helping ci sono canzoni per tutti i gusti e non si ferma alla notevole, per quanto ormai usurata ed abusata Sweet Home Alabama (che trova il suo corrispettivo albionico in Smoke on the Water in termini di abuso/usura). Quanto è dolce e romantica I Need You (spaccando comunque con ottime parti di chitarra)? Quanto southern-blues c’è dentro The Ballad of Custis Loew. E poi il boogie assassino e il southern rock tagliato spesso con l’accetta rispetto alle raffinatezze degli Allman Brothers. Il piano honky-tonk di Billy Powell che imperversa su Call Me The Breeze di J.J. Cale? Per me son momenti di grandezza.
Il fatto è che all’epoca tutti i recensori avevano sputato sulla band, distruggendola sistematicamente nelle recensioni (sorte che li accomuna ai Black Sabbath), creando un confronto forzato – anche se, a volte, non troppo- con la Allman Brothers Band. Non era corretto, concepisco che la materia trattata è quella ma è l’approccio che cambia: tanto erano raffinati e professionali Duane, Gregg e Betts, quanto erano gente di strada i Lynyrd. E si sente nella musica. Non sto dicendo che suonavano male, sto dicendo che quella pericolosità, quella vena stradaiola e l’animo ruspante di Ronnie, Allen e compagnia era portato con fierezza.
Ho sentito Second Helping una vita fa, realmente, e mi si è inciso nel petto all’altezza del cuore. I Lynyrd Skynyrd non mi stufano, non mi deludono e spesso, quando non indulgo nella musica preferita da Bafometto, è proprio la vena sudista a soddisfare i miei istinti rock. Non per nulla una delle mie band preferite ha proprio fatto uscire un disco intriso di Lynyrd Skynyrd e Black Sabbath.
Sto riascoltando il disco come sottofondo mentre scrivo la recensione, non per rinfrescarmelo (potrei parlarne a memoria), ma proprio perchè il piacere assoluto di sentire i Lynyrd Skynyrd attaccare con tre chitarre spianate Workin’ For MCA è un gran bel sentire e mi mette in pace con il mondo. E soprattutto, per poco meno di 38 minuti, mi scordo che domani è lunedì e che il weekend è semplicemente evaporato con i primi caldi primaverili.
[Zeus]


All I hear is Buuuurn!. I 50 anni di Burn dei Deep Purple (1974)

Avete presente quando c’è un compleanno importante che si tende a presentare tutta la storia del personaggio in questione per poi fargli gli auguri e guardare al futuro? Ecco, non è questo il caso, perchè parlare di Burn dei Deep Purple a 50 anni dalla sua uscita è sconsigliabile ad ogni sano di mente. E anche se io non sono proprio la stella più brillante della torta, non mi metto certo a mettere il culo nelle pedate. Però è interessante vedere che nel febbraio del 1974 il mondo era tutto sommato abbastanza tranquillo, se non teniamo conto i problemi di Nixon con il Senato per il caso Watergate, un po’ di iniziative nel mondo arabo e, soprattutto, l’esordio di una delle serie culto delle mattinate: Happy Days. Quanti di voi, da una certa annata indietro, hanno approffitato delle mattinate a casa malato per guardarsi una scarica di serie Tv fra cui ovviamente anche le repliche delle repliche di Happy Days? Io non so quante volte ho visto Fonzie, Richard e tutta la compagnia festante. Sono un ricordo indelebile.
Un po’ come lo è Burn dei Deep Purple, e sto parlando della canzone in questo caso. Un inizio così è difficile da riscontrare al giorno d’oggi, ce ne sono di brani forti, ma una Burn ha le stigmati della canzone epocale. Nella discografia della band inglese non penso ci sia una canzone d’apertura che possa tenerle testa, per gusto personale potrei dire che forse la sola Highway Star riesce nel compito di non sfigurare ed essere l’eccezione che conferma la regola.
Non sono mai stato un fan ardente dei Deep Purple, ne riconosco l’importanza vitale nella musica, ma il mio cuore ha sempre battuto per i quattro di Birmingham. E questo anche se Iommi & Co. non erano, musicalmente, all’altezza delle vette di Blackmore, Lord e compagnia. Il duo Coverdale – Hughes vince il confronto vocale con Ozzy ogni giorno e in quanto ad abilità come chitarrista c’è di che discutere fra la chitarra ad impostazione classica di Blackmore e i riff heavy di Iommi. Se la giocano realmente alla pari, ma Blackmore ha una tecnica incredibile. E poi, Cristo, c’è John Lord. E Paice vogliamo dimenticarlo?
Se poi tenete conto che nel 1974 i Deep Purple avevano anche appena fatto fuori un duo come Ian Gillan – Roger Glover, non proprio due scappati di casa, avendo il coraggio di sostituirli con due sconosciuti, capite che razza di rischio e che vincita per Blackmore. Ma sapete anche voi che il rapporto fra Gillan e Blackmore non è mai stato fra i più rilassati, concentrati com’erano a fare un gara a chi ce l’avesse più lungo. E Blackmore, fino ad un certo punto, ha vinto a mani basse. Questo ovviamente prima di essere semplicemente messo alla porta e sostituito senza nessun rimpianto con Steve Morse. Il chitarrista ex-Kansas e Dixie Dregs era decisamente più tranquillo del turbolento neropece-crinito chitarrista inglese. Vagli a dare torto ai Deep Purple, a leggere la biografia non autorizzata di Ritchie Blackmore, ti viene solo da esclamare che il tizio era uno stronzo. Geniale, ma uno stronzo. Cosa che comunque pensi anche a leggere le dichiarazioni di Gillan, solo che l’epiteto lo rivolgi all’attuale cantante dei Deep Purple, anch’egli un concentrato di ego sotto pressione spinta.
Burn è un disco che ti fa mette in mostra il futuro virato al funky-boogie degli inglesi (la vera svolta arriverà con Stormbringer), ma rimanendo abbastanza blues-hard rock da non tirare due schiaffi troppo forti ai fan. Io ve lo chiedo, sapendo già la risposta: come fai a non innamorarti di questa svolta una volta sentita?
Il carico d’adrenalina forse è stato diminuito (anche se la sola title-track è un cosa tipo speed), non ci saranno le badilate hard rock di In Rock o di Fireball, o anche un riff come quello di Smoke on the Water, ma Burn ha i coglioni fumanti e lo dimostra senza neanche arrossire nel corso di tutti i 42 minuti abbondanti di durata. Funk, boogie, blues, manciate di rock, arrangiamenti sopraffini e tutta la crema possibile: ecco una descrizione papabile di Burn. E poi vogliamo parlare di una Mistreated? Che parte a bollore leggero, mettendoti sulle spalle un plaid caldo caldo di blues che pian piano ti scalda le vene, le ossa e fa aumentare il pulsare del cuore. Io lo so, e tu che leggi anche, che quel sobbollire non è che un’anticipazione di quello che verrà, del vero caldo che poi salirà dai lombi in su. Un pezzo semplicemente eccezionale che si va ad inserire di prepotenza nelle grandi ballad blues dei seventies.
Se non vi è ancora venuta la voglia di rimettere su Burn ed ascoltarvelo al volume che gli è naturale, e quindi alto!, avete un bidone dell’immondizia al posto del cuore.
[Zeus]