Fino all’ultimo respiro. Nirvana – In Utero (1993)

Avevo iniziato questo articolo in ben altra maniera, poi mi son riveduto e corretto da solo. In fin dei conti In Utero è uno di quei dischi che mi porto appresso da una vita e mezza. La prima domanda, che mi pongo sempre guardando le foto del passato, per quale motivo i musicisti degli anni ’70, ’80 o ’90 sembrano i nonni di loro stessi? Sono domande del cazzo, lo so, ma guardate Jim Morrison e non gli dareste 27 anni, sembra lo zio cinquantenne ubriacone appena uscito dal turno serale. E così via anche gli altri. Kurt Cobain è passato dall’essere un mezzo adolescente, Bleach, all’essere il padre di sé stesso con tanto di sfascio cataclismatico dato dalle quantità crescenti di eroina messicana che si sparava in vena. Nel 1993 i Nirvana erano quasi fuori gioco, se vogliamo essere sinceri. Bleach era l’album della rivelazione, quello underground e grunge tout-court, mentre Nevermind è quello della consacrazione mondiale. E stiamo parlando nel 1991, anno in cui il mondo del rock e del metal esplode sotto i colpi di dischi come lo stesso Nevermind, Ten o il Black Album e via dicendo. Nei seguenti due anni, a parte qualche compilation e/o rarità, non esce niente di nuovo. L’attesa, la mia per lo meno, era spasmodica. Avevo bisogno di sentire ancora qualcosa, non poteva Nevermind essere l’ultimo vagito della band. Quello che non mi ero aspettato era un disco come In Utero: ruvido, schizofrenico, volutamente non radio-friendly, privo di troppi singoli (Nevermind era una compilation di singoli) e registrato in maniera naturale e non col tocco artificiale del duo Vig-Wallace. Albini mette la band nella condizione di esprimere un lato che, due anni prima, non si era colto: quello dell’essere realmente una band rock e non un gruppo dall’anima troppo pop per essere realmente grunge.
E poi, anche oggi e stiamo parlando di 30 anni dopo, In Utero è un disco fallibile e incostante. Per un lato A di indiscusso appeal, fra singoli e canzoni conosciute in lungo e in largo, c’è un lato B che è invecchiato maluccio e non riesco più ad ascoltare troppo. Non è una questione di ruvidezza o di essere punk, è proprio che le canzoni non arrivano a toccare i tasti giusti. Per una Pennyroyal Tea c’è una Milk It che non tiene il passo e via dicendo, lasciando le sole All Apologies e la sopracitata Pennyroyal Tea a far da traino. Per lungo tempo mi ero incaponito a ricercare in Radio Friendly Unit Shifter una nuova Nevermind ruspante, ma il suo fascino perverso è venuto ben presto meno e fra ascoltare questa e quel necrologio in musica chiamato Unplugged in New York, mi son sempre messo a sentire il live acustico.
Non ho alcuna necessità di sentire In Utero perchè me lo ricordo a memoria, ma lo sto facendo comunque perchè è come risentire un parente lontano. A volte il ricordo dell’LP è meglio di quella che è la realtà, ma c’è un substrato emozionale che mi lega ad In Utero e non riesco a criticarlo troppo ma neanche ad adorarlo in maniera incondizionata.
Ironia della sorte, In Utero compie 30 anni ed è tre anni più vecchio di quanto è stato Cobain su questa terra. Tre dischi e la parabola dei Nirvana è finita col botto di un fucile da caccia in un garage di Seattle, da qui in avanti è solo storia e ricordi.
[Zeus]

Capitalizzare il successo, act.2. Nirvana – Hormoanig (1992)

All’improvviso ti trovi fra le mani la band che determinerà un certo modo di intendere il rock e cosa fai? Se sei un’etichetta scaltra e senza scrupolo alcuno, allora batti il ferro finché è caldo perché lo sai anche te che di Bruce Springsteen ce n’è uno solo, il resto sono band che prima o poi si fotteranno con le proprie mani. Soprattutto se provengono dal Nord-Est americano e, per quanto si incomincia a sospettare, siano coinvolte in un ampio giro di stupefacenti. Meglio capitalizzare, buttare sul mercato quello che si ha e poi sperare che la propria gallina dalle uova d’oro non si suicidi, perdonate il lugubre gioco di parole, con le proprie mani. A seguito dell’esplosione di Nevermind, uno di quei dischi generazionali che potete contare sulle dita di una mano, i Nirvana si trovano nella morsa senza scrupoli del tour estensivo in tutti gli antri più fetidi del globo terracqueo. Una tappa del tour mondiale vede anche la loro presenza in Australia e Giappone e alla DGC, Geffen devono essersi sfregati gli artigli e hanno buttato sul mercato della terra dei canguri e nell’estremo oriente un EP chiamato Hormoaning.
Non contiene niente di che in termini di nuove canzoni (due), visto che il focus è centrato sulla presenza di ben 4 cover. Gli “originali” sono in realtà sono delle B-side già apparse quando è uscito Nevermind, mentre le cover sono state registrate durante le leggendarie Peel Session per la BBC Radio nel lontano 1990 (lode a John Peel, lui sì che aveva talento e curiosità). Delle canzoni originali, solo Aneurysm me la ricordo e mi fa piacere riascoltare, mentre per il reparto cover sono le canzoni dei Vaselines ad avere la meglio sulla riproposizione di Turnaround dei DEVO o D-7 dei Wipers. Non so perché, ma la resa dei Nirvana è abbastanza frizzante e spensierata da fartele piacere subito.
C’è poco da dire su Hormoaning, non è che offra chissà cosa in termini di rivalutazione o altro, ma fa sempre piacere risentire i Nirvana in quel periodo “intermezzo” fra essere una buona band con ottime canzoni ed essere la band di tutti.
[Zeus]

Quando dite grunge, parlate di Nevermind dei Nirvana (1991)

Trenta anni fa io c’ero.
E’ uno dei pochi dischi considerati “storici” in cui ero presente, anche se giovane, e ne ho subito direttamente la sua influenza. Mi ricordo la venuta delle camicie in flanella, le All Star, i jeans strappati. Beh, c’è da dire che non è che dalle mie parti si percepisse il movimento grunge, la bassa atesina non è Seattle, questo è chiaro, ma più che il grunge, era forse l’insieme di dischi usciti quell’anno (ci metto assieme il Black Album e i due Use Your Illusion e altri) che portarono un leggero cambiamento. Si iniziò a sentire alla radio un po’ di musica diversa, quindi con chitarre distorte, e alle feste, in chiusura dopo la musica da ballare, iniziarono a metterci anche una Smells Like Teen Spirit e i gruppi cover locali iniziarono a inserire anche qualcosa di più duro nel repertorio.
Nevermind lo aveva in vinile la sorella di un mio amico, molto più vecchia di noi, quando andavo a trovarlo e finito i compiti (andavo alle medie) lo ascoltavamo spesso. Quello, o un disco con gli effetti speciali per il teatro, che ci faceva ridere molto, ma questa è un’altra storia.
Altra cosa che mi viene in mente è che Nevermind fu un album che durò molto, nel senso che fu ascoltato e celebrato a lungo, i suoi singoli trasmessi per anni alla radio, la gente la T-shirt dei Nirvana indosso per anni e così anche le camicie di flanella. Che poi erano molto comode, bisognerebbe rivalutarle.
Non mi soffermo a fare un analisi del disco, sarebbe offensivo, credo che lo abbiate ascoltato tutti varie volte, volontariamente o involontariamente. E’ un gran disco e direi, anche se è un disco anni ’90 al 100%, se non il disco manifesto degli anni ’90, è ancora attuale e se ascoltato adesso non dà la sensazione di vecchio. Sensazione che invece ci sentiamo addosso noi, ricordandoci di quanto velocemente sono passati 30 anni.
[Lord Baffon]

T-Shirt dei Nirvana? Check. Poster in camera? Check. Autobiografie di tutti i tipi sulla band (o sul grunge in generale)? Check. Camicie in flanella e jeans strappati? Check. Avevo tutto l’ABC del grunge, ovviamente anche i dischi, che adoravo e, infatti, ancora oggi ho un debole particolare quando devo trattare dei gruppi grunge dell’epoca. Probabilmente nella seconda metà degli anni ’90 sapevo più io dei Nirvana che Dave Grohl stesso. Però sapete cosa mi fa specie? Mi ricordo che, all’epoca, Kurt Cobain mi sembrava un adulto, quasi un vecchio, e non aveva ancora 27 anni! Ovviamente la stessa cosa si poteva dire anche di Jim Morrison, altro che a 27 anni ha salutato questo mondo, ma il buon Jim, nei seventies, sembrava un 50enne completamente sfinito dall’alcool e dalle droghe. Nelle ultime foto promozionali, il Re Lucertola sembrava il padre di sé stesso. Adesso, a trent’anni di distanza da Nevermind, mi accorgo di quanto fosse giovane Kurt Cobain, di quanto tutto è relativo e, in realtà, di quanto il tempo scorre indifferente a tutto e tutti. Prima di dipingere il muro con le sue cervella, Cobain ha fatto in tempo a far uscire una manciata di dischi che hanno rivoluzionato l’inizio degli anni ’90, portando milioni di giovani ad avvicinarsi alla musica “pesante” e al rock, senza per forza doversi subire le stronzate che le radio trasmettevano all’epoca. Uno di questi dischi è proprio Nevermind e, come molti prima di me e tantissimi dopo, anche io ne sono stato colpito in maniera violenta. Prima ascoltavo la musica in un modo e poi eccoti Nevermind che ha spazzato via tutto, portando con sé una nuova/vecchia idea e le sue cover risuonavano nelle cantine sudate e puzzolenti, a cui si aggiunse velocemente un altro classico da band esordiente: Bro Hymn dei Pennywise.
Nevermind lo ascoltavo su cassetta originale, non credo di aver mai comprato il CD tanto ero affezionato a quella cassetta per moltissimi motivi e non tutti positivi, e l’ho praticamente memorizzato da cima a fondo. Come ha detto il buon Lord Baffon, ci sono pochissimi dischi che incarnano l’espressione di un decennio e Nevermind ne è l’esempio lampante. I Nirvana e questo LP sono l’espressione degli anni ’90 e, nonostante l’età che passa, i trend che vanno e vengono, le rivalutazioni e il tentativo di continuare a mangiare sul cadavere di Cobain, Smells Like Teen Spirit, In Bloom e via dicendo sono ancora delle grandi canzoni e non sono invecchiate di un minuto.
Miracoli di un disco diventato generazionale.
[Zeus]

Culti profani. Cult of Fire – Nirvana (2020)

Ho un dubbio ricorrente ed è il seguente: perché nelle conversazioni metal non vengono citati più spesso i cechi Cult of Fire? Fossero scarsi, me lo potrei spiegare. Fossero in fase calante, idem. Ma è da quasi 10 anni che il trio ceco non solo non sbaglia un colpo, ma è praticamente in salita costante come complessità delle strutture e della musica che propongono. Il disco in questione, Nirvana, è stato pubblicato nel 2020 ed è addirittura uscito in concomitanza con Moksha, altro LP che provvederò a recensire il prima possibile. Al posto che un doppio disco, due LP che si specchiano e si differenziano uno dall’altro, pur mantenendo un trademark definito e riconoscibile.
I Cult of Fire fanno bene, se non meglio, quello che i Batushka poi esporteranno nel 2015: suonano un black metal tutt’altro che ordinario, imbevuto di sonorità complesse, articolate, dalle fortissime influenze indiane e con una predilezione per tematiche che riguardano la religione induista ed il vedismo.
ll risultato è un black metal che spazia fra accelerazioni più “classiche”, non sto parlando di velocità alla Marduk, e enormi aperture verso territori sinfonico/epici, dalle tendenze quasi atmosferiche e in alcuni tratti addirittura si potrebbe parlare di post-qualcosa.
Non essendo una normale black metal band, il tupa-tupa a rotta di collo viene utilizzato cum grano salis, spargendolo all’interno della canzone sì (vedasi Buddha, pt. 4) ma lasciando l’occhio di bue a tutto il resto dell’architettura sonora che, sempre citando la stessa canzone, non stonerebbe in una delle mille band psichedeliche-stoner dall’impronta esclusivamente strumentale. Questo è forse il lato che più mi affascina di Nirvana dei Cult of Fire, la capacità di far coesistere, in maniera organizzata e sensata, due attitudini completamente diverse: il black metal, perché sotto sotto ce n’è ancora di metal nero, e tutto il resto che potremmo definire genericamente rock dalle influenze black metal.
Nirvana vince per K.O. contro tutte le uscite dei Batushka, sbattendo al creatore tutto quanto uscito post-2015 e giocandosela solo con l’esordio dei polacchi visto che, quest’ultimo, in termini di impatto sul mercato e su un certo modo di intendere il black metal moderno, ha fatto la voce grossa. Se poi la fate semplice e inserite i Cult of Fire nel filone degli Mgla allora forse c’è qualcosa che non funziona: i cechi non hanno praticamente niente del sound dei polacchi, se non l’indubbia capacità di creare un mondo a sé stante mentre stai ascoltando il brano.
Mentre gli Mgla suddividono i propri LP in diverse parti che possono essere utilizzati come “scampoli di filosofia nichilista”, i Cult of Fire hanno tutt’altra attitudine e cercano di trasformare il disco in una specie di rituale. Ogni pezzo è auto-conclusivo, ma collegato con gli altri e l’effetto finale è quello di spostare il proprio livello un gradino verso l’alto, cercando di raggiungere “l’illuminazione”.
Illuminazione che viene trasmessa tramite un buon uso sia della parte sinfonica (ad es. la parte centrale di Buddha, pt. 2) , sia indulgendo senza vergognarsene in territori più epici e cinematografici (Buddha, pt.3).
Ho già citato alcune tracce, ma è praticamente inutile fare il track-by-track, vista la complessità di ogni singolo brano e, in generale, l’essere quest’ultimo parte di un tutto chiamato LP. Nirvana è un disco compatto, coeso ma tutt’altro che monotono, come l’ultimo dei Gaerea. I Cult of Fire sono riusciti nell’intento di creare un disco cangiante, fluido, senza essere né pretenzioso né fighetto; Nirvana, quando vuole, ha le stigmati del black metal, ma lo usa a modo proprio arrivando ad essere un sound personale.
Quanto mi dispiace essere arrivato a recensire questo disco solo adesso, sarebbe entrato di diritto in una classifica di fine anno. Nirvana è uno di quei dischi che sottovaluti perché i Cult of Fire sono underground, misconosciuti ai più e ignorati da molti, ma è un LP che ti entra nelle vene e ti obbliga a sentirlo fino a raggiungere quello stato di trascendenza che, più che mai vero, è nominato nel titolo.
[Zeus]