Deathspell Omega – Si Monvmentvm Reqvires, Circvmspice (2004)

Arrivo un po’ in ritardo con il compleanno del terzo album dei Deathspell Omega. Vi ho già parlato un po’ di volte di questo disco (scusate se mi ripeto, ma la vecchiaia fa questi scherzi), anche se in realtà mai in termini di vera recensione. E, per non smentirmi neanche questa volta, non farò la recensione di Si Monvmentvm Reqvires, Circvmspice, visto che son passati ormai 20 anni e credo che ognuno che mastichi un po’ di black metal, deve averlo almeno approcciato un paio di volte. Il problema, per alcuni, è il cambio di rotta dai precedenti LP in studio, visto che dentro il terzo album si incomincia a respirare tutta un’altra bestia, con tanto di registrazione più pulita ma comunque capace di essere brutale e lontana dalla plastica. E poi il religious black metal che infetta il songwriting, storcendo concetti cristiani e rendendoli megafoni di un’attitudine satanica e blasfema. Un concetto di black metal che i Funeral Mist avevano ben espresso in Salvation dell’anno precedente. Ma, come anticipato, questa non è una recensione, è un ricordo. Posso mettere bit su schermo senza problema ricordandomi quando è stato il momento in cui i Deathspell Omega erano la colonna sonora delle mie attività. All’epoca ero ancora in Italia e, vista la scarsità di ferie ed il caldo mostruoso che attanagliava le mura dell’appartamento, cercavo rifugio in qualsiasi posto possibile che non prevedesse l’utilizzo della macchina. Escludendo la piscina comunale, luogo che mi fa salire il pelo sulla schiena come i gatti quando sono incazzati neri.
Vicino alla casa, paio di minuti a piedi, c’era un piccolo parco, abbastanza tranquillo e con un po’ di panchine. Frequentato poco, in realtà, quindi non mi è mai dispiaciuto molto sedermi all’ombra di questo o quell’albero e ascoltare musica aspettando la sera ed una pontenziale uscita al pub con qualche pinta da bere senza troppi problemi. Non mi ricordo l’anno, ma non era quello dell’uscita di Si Monvmentvm Reqvires, Circvmspice, che avevo sentito già da un po’ ma che solo in quell’estate ha messo radici. Dicevo, sfiancato dal caldo bestiale, mi dirigevo a testa bassa verso il parco, cuffie nelle orecchie e il libro di Max Hastings, Inferno il mondo in guerra 1939 – 1945, sotto il braccio. Un mattone notevole, credetemi. Mattone sia per il peso specifico di un libro che girava su numeri consistenti di pagine, sia per il contenuto che andava ad analizzare e per come lo analizzava. Quindi calma, afa mortale, un libro dedicato alla seconda guerra mondiale (cosa che farebbe piacere ai Marduk) e, nelle orecchie, i Deathspell Omega. Sempre. Il motivo di questa perversione? Perchè ci stava bene una colonna sonora di quel tipo con la lettura, il disastro mondiale, la violenza più pura accompagnata da una preghiera blasfema. Non penso che riuscirò mai a scindere queste due memorie, per me Max Hastings sarà sempre collegato a Si Monvmentvm Reqvires, Circvmspice. L’uno si nutrirà dell’altro, formando una memoria di totale apocalisse. E tutto ha un senso, sia i momenti definiti “First Preyer” (e seguenti), sia il resto, che producono l’idea di una celebrazione dedicata al Grande Capro e, di realmente sacro, non c’è niente: solo sangue, pestilenza, marcio e riti sconsacrati (anche grazie alla voce di Mikko Aspa dei Cladenstine Blaze)
A pensarci adesso, non credo ci sia un altro disco dei Deathspell Omega che mi susciti queste memorie, che sia così dentro un certo periodo della mia vita e che, come molto spesso succede, è stato il paragone con cui ho confrontato tutte le successive uscite della band finnico-francese.
[Zeus]

Realm of Plagues: Funeral Mist – Salvation (2003)

L’esordio dei Funeral Mist è uno di quelli da ricordare.
Ancora con la formazione allargata, oltre ad Arioch (al secolo Mortuus), ci sono ancora Necromorbus degli Ofermord alla batteria, e lo sconosciuto Nachash, i Funeral Mist masticano e sputano un religious black metal veloce, violento e blasfemo senza mezzi termini. Questa versione primigenea rimarrà tale fino al 2009, visto che già con Hekatomb le coordinate musicali varieranno leggermente alleggerendo alcuni tratti sonori e gestendo in altro modo i tempi musicali.
Se nell’esordio Devilry si era respirato un primo assaggio del fetore blasfemo, il periodo fra Salvation e Maranatha cementa il suono dei Funeral Mist della prima ora e sono l’esempio della visione musicale Arioch. Visione che, ci tengo a ribadire, il singer svedese si porterà appresso anche su dischi come Wormwood e Rom 5:12, che sono ampiamente influenzati da quanto fatto dai Funeral Mist. Che questo sia stato apprezzato dai fan dei Marduk (no!) è cosa risaputa, ma meglio variare rispetto alla stagnazione e/o ricreare dischi deboli come La Grande Danse Macabre o World Funeral.
Il suono di Salvation è, rispetto ai recenti Deiform e Hekatomb, più complesso e articolato. Ci sono parti che puzzano di groove (il riff iniziale di Sun of Hope, che dura una frazione di secondo e che secondo me verrà ripreso in seguito su Imago Mortis dei Marduk), ma è la commistione fra le ritmiche velocissime di doppia, il riffing spasmodico e l’inserimento di ampi tratti di parti registrate, tipo l’outro su In Mano Tuas (tratto da The Phantom Carnage, che poteva essere sforbiciato di qualche minuto senza problemi) che crea un wall of sound enorme, nero pece e vagamente schizofrenico.
Ammetto che prima di apprezzare queste parti registrate, ci ho messo qualche ascolto. All’epoca ero in un periodo in cui volevo solo black metal alla massima velocità e queste digressioni, improvvisi rallentamenti, mi avevano lasciato l’idea di essere un’interruzione al flusso di violenza prodotto dalla band e che ne “annacquassero” il risultato finale. Errore mio, ovvio. Sono proprio i cori gregoriani, tutta le trovate inserite da Arioch nel contesto ad aumentaere l’atmosfera, amplificando in maniera netta la blasfemia dei momenti più veloci.
Non tutto è oro Salvation, anche se molto è fatto realmente bene. La prova di Arioch alla chitarra è buona sì, ma nel futuro prossimo riuscirà ad essere ancora più incisivo, seppur Perdition’s Light si porta appresso un riff veloce e melodico che mi sembra riutilizzato su Deiform. La prova dei comprimari è buona, soprattutto la batteria di Necromorbus che parte a mille con la doppia e tutto il compendio di lavoro su tom e piatti. In seguito al cambio di formazione e l’entrata in pianta stabile di Lars Broddesson, presente già sul successivo come guest, renderà i brani forse più “quadrati”, ma ne aumenterà la botta; basti pensare al lavoro fatto anche per i Marduk su Serpent Sermon.
Arioch/Mortuus si sgola come era ancora solito fare fino circa a Wormwood, visto che a partire da Frontschwein ha smesso la sequela di urla, vocalizzi e gorgoglii che lo contraddistinguevano per adottare uno screaming più diretto e funzionale alle ritmiche spaccacollo dei Marduk. Vediamo su Memento Mori cosa uscirà, le anticipazioni strattonano la band su entrambe le coordinate (più “sperimentale Shovel Beats Sceptre, più classico assalto frontale alla Marduk l’altro singolo).
A vent’anni di distanza Salvation è ancora un ottimo ascolto e forse uno dei dischi dei Funeral Mist che, col tempo, ha saputo far valere il suo valore rimanendo attuale e invariato in termini di violenza e odio.
[Zeus]

Le sfaccettature della divinità. Funeral Mist – Deiform (2021)

Non ho idea, ad oggi, di quante volte ho ascoltato Deiform, ultimo parto dei Funeral Mist. Non posso dirmi di averlo atteso, visto che Mortuus/Arioch era in pieno momento industrial con i DomJord e quindi l’idea che fosse al lavoro anche con i Funeral Mist non mi era passata per la testa. Onestamente mi aspettavo prima un disco dei Marduk, ma Morgan, post-Viktoria, si sta prendendo il suo tempo per elaborare il nuovo LP e, immagino, che questo sia anche collegato alla situazione concertistica. I Marduk sono una formazione che sfrutta il lancio del disco per tirar fuori tour su tour e monetizzare il più possibile gli sforzi fatti in studio. Senza concerti e con il tour del trentennale già eseguito, i Marduk devono essersi fermati a ragionare sui pro e contro di far uscire un disco e la risposta è stata un unanime sticazzi ci rivediamo più avanti.
Questo “buco creativo” della band madre lascia tempo a Mortuus di sfogare i suoi istinti in varie direzioni: con i DomJord sonda un certo aspetto della creatività, non legata a doppio filo con la violenza manifesta di Triumphator o dei Funeral Mist stessi; mentre con questi ultimi si getta a piè pari nel religious black metal e prova a fornire un successore dell’ottimo Hekatomb del 2018.
Ed è dal disco del 2018 che prende il via Deiform, che è un buon successore ma non riesce ad esserne un miglioramento netto e, forse, neanche al pari. I tratti distintivi del suono di Arioch sono ben evidenti, sia nella commistione fra classico black metal svedese e industrial, sia una generale schizofrenia che fa incontrare/scontrare voci bianche e riffing black metal, parti quasi DomJord (il finale percussioni-voce di In Here, che pur ben inserito nel contesto dopo un po’ è troppo lungo) e tutta una serie di elementi che, in un modo o nell’altro, son già stati esplorati nei dischi precedenti di Arioch. In termini di aggressività e violenza, Deiform non soffre di grandi complessità d’inferiorità nei confronti dei Marduk, visto che le velocità assassine di Apokalyptikon o di Hooks of Hunger sono esempi lampanti di come Arioch sia più che capace di maneggiare un sound estremo sia in termini prettamente compositivi (si occupa di tutto, tranne della batteria che è territorio del fido Lars Broddesson, ex-Marduk del periodo WormwoodSerpent Sermon), sia in termini di efficacia dello screaming. Gli inserti liturgici di Twilight of the Flesh, trademark dei Funeral Mist e comparsi anche su Rom 5:12 dei Marduk, sono ecclesiastici al punto da risultare perfettamente blasfemi nel contesto di Deiform e anche il chorus delle voci bianche di Children of the Urn non fa altro che aumentare il contenuto diabolico di quanto prodotto da Arioch nel resto della canzone, compreso il finale con le chitarre armonizzate e melodiche e Lars B. che fa il demonio sotto (oh, a me sta parte piace).
Le prime quattro canzoni sono un paio di gradini sopra rispetto alla tripletta finale, su questo non ho dubbi. A partire dalla quinta traccia si sente un certo calo e anche se Hooks of Hunger non si faccia pregare dal prenderti a pugni in faccia, è un po’ monotematica, e la title-track si muove lenta e mastodontica ma, forse, avrebbe beneficiato di un qualche guizzo in più per poter tener alto il livello della canzone nel corso del minutaggio consistente. Into Ashes è la migliore delle tre, e sto parlando di una traccia da 9 minuti alla fine di un LP che segna 50 minuti abbondanti sul contachilometri.
Torno un momento sul lavoro dietro la batteria di Lars Broddesson. La sua performance non è né innovativa né variegata, visto che il batterista svedese ha due velocità: le parti lente efficaci per i momenti più religiosi e delle ottime sfuriate in doppia cassa, ma è formalmente ineccepibile, adattandosi bene al mood generale di Deiform. L’unico momento meh è la sensazione che in certi passaggi velocissimi sia stato aiutato dal trigger. Ma forse mi sbaglio io e non capisco un cazzo. Però c’è di che divertirsi ad ascoltarlo far a pezzi la batteria, anche perché Devo e i suoi Endarker Studios hanno fatto un buon lavoro fornendo una registrazione pulita e potente, ma senza puzzare di plastica.
Cercando un sunto a questa sbrodolata di parole, direi che Deiform è un buon disco, con dentro almeno 4 canzoni che spaccano. Non potevamo aspettare un nuovo Hekatomb e, forse, è anche bene così. Deiform viaggia con le sue gambe e dimostra, se mai ce ne fosse bisogno, che Arioch/Mortuus non ha intenzione di riposare o di vivere sugli allori dei Marduk; non sarà un capolavoro assoluto ma è un LP di tutto rispetto e molte spanne sopra a certa merda che uscita nel corso degli anni.
[Zeus]