Trentenni ruspanti. Marduk – Those of the Unlight (1993)

Togliamocelo subito di dosso il problema, almeno mi metto la coscienza in pace con i nuovi lettori del sito (che non esistono, sia chiaro): i Marduk sono esistiti anche prima dell’arrivo di Legion nella band e, oibò, anche prima di Panzer Division Marduk. Lo dico a loro, non a voi che avete una conoscenza della band, ok? Perchè voi tutti sapete che prima di Legioin ci son stati 5 anni di Marduk seminali, veloci ed ispirati come poche volte poi si ritroverà nella loro discografia – per quanto quasi sempre di alto livello. All’epoca erano una band che spostava l’asticella della blasfemia, della velocità e del fuck you un pelino più in su. Ogni. Santa. Volta. Erano una band che non registrava presso gli Abyss Studios (cosa che poi sarà consuetudine per molti anni a partire da Heaven Shall Burn… When We Are Gathered fino a World Funeral) ma da un “tizio” di nome Dan Swanö, cogliete l’ironia del virgolettato please, presso gli Hellspawn Studios. Era l’epoca con Devo Andersson alla seconda chitarra: un’epoca durata un battito di ciglia, visto che già dallo stupendo Opus Nocturne si ritornerà ad una sola chitarra. Devo, infatti, uscirà dalla band per una decina d’anni e si concentrerà su progetti di cui si ha poca memoria storica.
Il 1993 ha segnato anche il cambio di pelle dei Marduk: basta influenze death metal, come in Dark Endless, e focus al 100% sul black metal. E direi che l’avvio con Darkness Breeds Immortality è un testimonianza più che mai valevole. E da questo punto in poi giù giù nella scaletta con pezzi che hanno creato quella che era l’epoca eccitante dei Marduk, quella ricca di tentativi, vivace e lontana anni luce sia dalla fabbrica di brutalità chiamata Panzer Division Marduk (senza dubbio la vetta della potenza e iconoclastia sonora di Morgan&Co.), sia dalle riconoscibili influenze Funeral Mist nei dischi post-2004. Dentro Those of the Unlight ci sono inni come Wolves, canzone che è sempre presente nella scaletta dei concerti, e ci sono brani eccezionali come Echoes from the Past, tipologia di strumentali e brani lenti che i Marduk hanno disimparato a suonare e che non troveremo mai più in un LP della band svedese. Ci sono tutti i rimandi Tolkeniani (cover art e testi), coerenti con il 1993 e il black metal di quel tempo, ma un unicum nella loro discografia; e ci diversi agganci realmente “melodici”, più di quanti se ne potranno poi trovare da quel momento in poi.
Intendiamoci bene, i Marduk sono sì conosciuti per il loro riffing incessante e veloce, cose che sindrome del tunnel carpale spostati, ma hanno sempre avuto un sottilissimo gusto per l’inserimento di parti melodiche di contraltare, accenti sbilenchi che li hanno differenziati da molti altri carneadi della velocità. Solo che in Those of the Unlight questo perverso gusto melodico era ispirato e non aveva come fine ultimo quello di scrivere una “canzone Marduk rallentata” ma un vero e proprio apporto musicale diverso.
Per una questione puramente affettiva, a Those of the Unlight preferisco Opus Nocturne. Quest’ultimo è stato il primo disco dei Marduk che ho sentito e al cuor non si comanda, ma il disco del 1993 è semplicemente da tenere nella top della band svedese. Tante parole per dire questo, potevo scrivere di meno e iniziare con questa affermazione… ma chi avrebbe letto tutto il resto poi?
[Zeus]

Io, tu e il Diavolo. Rotting Christ – Thy Mighty Contract (1993)

Recensire Thy Mighy Contract dei Rotting Christ a 30 anni dalla sua uscita mi sembra di fargli un torto. O farlo a voi tre lettori accaniti, che state solo cercando qualcosa per passarvi il tempo mentre state comodamente seduti sul gabinetto. Ci sarà realmente qualcuno che non lo conosce? Probabilmente le nuove generazioni di metallers che arrivano adesso a maneggiare il black metal e vogliono capire perchè le band di adesso suonano così. Perchè tutti parlano dell’epoca d’oro del black metal e del fatto che, in questo torbido 2023, non ci sia più molto da ascoltare che abbia un senso.
A parte che quest’ultima affermazione è una emerita vaccata, vista la quantità di dischi underground di spessore e di valore che stanno uscendo in questi mesi, un suo senso ce l’ha; ma mi riferisco alla prima parte del discorso. Da dove arriva il suono di adesso? Che percorso ha fatto?
Una domanda che tutti si sono fatti prima di andare a perlustrare l’archivio musicale di fratelli, sorelle, parenti, amici, consulenti psichiatrici, barboni alcolizzati e via dicendo. Si cerca all’indietro perchè è salutare andare a vedere cosa c’era, cosa ha portato la musica a questo livello, chi erano i padri fondatori di un certo genere. Cercare di rispondere alla domanda: perchè i Metallica odierni sono così loffi, mentre quelli di prima erano uno dei gruppi formativi per eccellenza?
Da dove viene il modo di suonare black metal alla greca? Ecco, tutte domande legittime che il nostro brufoloso metallaro si potrebbe chiedere. I Rotting Christ sono la risposta, amico mio. Perchè quello che tu ascolti adesso, sia esso un disco della band o del Sakis solista, hanno un link con quanto c’era prima, ma sono profondmente diversi dallo spirito che prima impregnava i solchi di quei dischi storici. Non fraintendetemi, non sto facendo il vecchio burbero scorregione, quello a cui vanno bene solo i dischi vecchi. No, come detto sopra, LP moderni ce ne sono e sono di valore indiscusso. Non necessariamente nuovi in senso stretto, ma fra novità fine a sé stessa (e quindi spesso dannosa) e rispettosa riproposizione di un sound storico, io preferisco un buon CD di musica fatta bene anche se non rispondente al canone di originalità che tutti si aspettano in maniera quasi rabbiosa dalle band.
Thy Mighy Contract, invece, è realmente innovativo. Perchè era il 1993 e il black metal era al suo culmine – guardatevi solo le uscite dei mese di ottobre/novembre di quell’anno e potete capire che non c’era da scherzare -, e la via greca al black metal la stavano creando proprio delle band come i Rotting Christ. Precursori di un certo sound, puro black metal sì, ma più ritualistico e più occulto delle staffilate ghiacciate che provenivano dai fiordi norvegesi o dalle fredde città svedesi. E poi Thy Mighy Contract ha dentro ancora i riff che spaccano, quelli che Sakis sapeva scrivere senza quasi pensarci sopra troppo, cosa che invece ha incominciato a perdere a partire dalla seconda metà del 2000 a favore di un approccio ritmico e percussivo che, con tutto il bene che voglio ai fratelli Tolis, perde il confronto con quanto c’è dentro una sola Exiled Achangels. Fino ad un certo punto i brani erano anche decisamente belli, ma ritengo Heretics del 2019 realmente debole.
Il fatto è che Thy Mighy Contract vive dell’eccitazione generale dell’epoca, un black metal vivace, vivo e non tendente (ancora) a specchiarsi in sè stesso; e i Rotting Christ erano acerbi, ma già abbastanza scaltri dopo 5 anni di vagabondaggio fra grind e proto-black metal greco (Passage to Arcturo). Sakis aveva una marea di idee da utilizzare e le usa con sapienza e perizia, tanto che i riff si contorcono e ti fanno sbattere la testa, il piede ma riescono arrivare a segno, sono memorabili e ancora oggi mi chiedo, come sempre ho fatto da quel momento in avanti, come mai il mainman greco non sia ancora riuscito a convincere Baphomet ad arrivare su questo pianeta.
Thy Mighty Contract sta nel mio personale Olimpo dei greci ed è uno di quei CD da dare ai giovani per farsi le ossa con qualcosa di realmente buono e non certe porcherie che escono adesso – soprattutto di band grosse e famose.
Thy Mighty Contract sa di buono, di tutto quello che vorresti sentire dai Rotting Christ e che sai che non ritornerà mai più perchè, come tutti gli LP fondamentali, cristallizzano una band in pieno mutamento e che solo per quei 37 minuti è rimasta così, a suonare riff immortali come The Sign of Evil Existence o Transform All Suffering into Plagues.
[Zeus]

Fino all’ultimo respiro. Nirvana – In Utero (1993)

Avevo iniziato questo articolo in ben altra maniera, poi mi son riveduto e corretto da solo. In fin dei conti In Utero è uno di quei dischi che mi porto appresso da una vita e mezza. La prima domanda, che mi pongo sempre guardando le foto del passato, per quale motivo i musicisti degli anni ’70, ’80 o ’90 sembrano i nonni di loro stessi? Sono domande del cazzo, lo so, ma guardate Jim Morrison e non gli dareste 27 anni, sembra lo zio cinquantenne ubriacone appena uscito dal turno serale. E così via anche gli altri. Kurt Cobain è passato dall’essere un mezzo adolescente, Bleach, all’essere il padre di sé stesso con tanto di sfascio cataclismatico dato dalle quantità crescenti di eroina messicana che si sparava in vena. Nel 1993 i Nirvana erano quasi fuori gioco, se vogliamo essere sinceri. Bleach era l’album della rivelazione, quello underground e grunge tout-court, mentre Nevermind è quello della consacrazione mondiale. E stiamo parlando nel 1991, anno in cui il mondo del rock e del metal esplode sotto i colpi di dischi come lo stesso Nevermind, Ten o il Black Album e via dicendo. Nei seguenti due anni, a parte qualche compilation e/o rarità, non esce niente di nuovo. L’attesa, la mia per lo meno, era spasmodica. Avevo bisogno di sentire ancora qualcosa, non poteva Nevermind essere l’ultimo vagito della band. Quello che non mi ero aspettato era un disco come In Utero: ruvido, schizofrenico, volutamente non radio-friendly, privo di troppi singoli (Nevermind era una compilation di singoli) e registrato in maniera naturale e non col tocco artificiale del duo Vig-Wallace. Albini mette la band nella condizione di esprimere un lato che, due anni prima, non si era colto: quello dell’essere realmente una band rock e non un gruppo dall’anima troppo pop per essere realmente grunge.
E poi, anche oggi e stiamo parlando di 30 anni dopo, In Utero è un disco fallibile e incostante. Per un lato A di indiscusso appeal, fra singoli e canzoni conosciute in lungo e in largo, c’è un lato B che è invecchiato maluccio e non riesco più ad ascoltare troppo. Non è una questione di ruvidezza o di essere punk, è proprio che le canzoni non arrivano a toccare i tasti giusti. Per una Pennyroyal Tea c’è una Milk It che non tiene il passo e via dicendo, lasciando le sole All Apologies e la sopracitata Pennyroyal Tea a far da traino. Per lungo tempo mi ero incaponito a ricercare in Radio Friendly Unit Shifter una nuova Nevermind ruspante, ma il suo fascino perverso è venuto ben presto meno e fra ascoltare questa e quel necrologio in musica chiamato Unplugged in New York, mi son sempre messo a sentire il live acustico.
Non ho alcuna necessità di sentire In Utero perchè me lo ricordo a memoria, ma lo sto facendo comunque perchè è come risentire un parente lontano. A volte il ricordo dell’LP è meglio di quella che è la realtà, ma c’è un substrato emozionale che mi lega ad In Utero e non riesco a criticarlo troppo ma neanche ad adorarlo in maniera incondizionata.
Ironia della sorte, In Utero compie 30 anni ed è tre anni più vecchio di quanto è stato Cobain su questa terra. Tre dischi e la parabola dei Nirvana è finita col botto di un fucile da caccia in un garage di Seattle, da qui in avanti è solo storia e ricordi.
[Zeus]

The Breeders – Last Splash (1993)

Agli inizi del 1990 mi ero preso una bella sbornia di alternative. Non ero l’unico, ovvio, visto l’impatto deflagratorio del grunge e, in generale,di tutta quella musica che le major stavano lentamente scovando nel sottobosco musicale. Era l’epoca degli A&R che cercavano con la bava alla bocca i nuovi Nirvana, i nuovi Pearl Jam o Alice in Chains. Cercavano chi sapesse riprodurre al meglio le sonorità in voga ad inizio ninties. Erano cani da tartufi che portavano alla ribalta gente come i Bush e band come le The Breeders. Perchè, intendiamoci bene, anche le band menzionate da un Cobain sfinito di droga o un Cornell o da un Lars Ulrich in pieno delirio di onnipotenza, erano più che degne di mangiare a questa mensa. Se Cobain dice di amare una band va trovata, messa sotto contratto e munta fino a sfinirla, il potenziale ritorno poteva essere enorme visto che la cassa di risonanza (un’intervista, MTV o chissà cosa) era immensa. Le The Breeders, creatura di Kim Deal insieme alla sorella Kelley, la Wiggs al basso e MacPherson alla batteria, hanno proprio questa fortuna sfacciata. Cobain incensò Pod e, di colpo, da band parallela e valvola di sfogo della Deal, diventano importanti. Un nome da tenere d’occhio. E sì che Kim Deal non era proprio sconosciuta nell’underground, visto che era parte dei The Pixies e aveva suonato su Surfer Rosa, disco fondamentale nel grunge e alternative per il suo utilizzo dei pieni e vuoti musicali (Nevermind ne riprende alcune idee su strofe calme e ritornelli coi watt), che ho a casa e che poi è diventato famoso per Where Is My Mind?, utilizzata nella colonna sonora di Fight Club. Quindi, nell’underground, qualche credito ce l’aveva. Ma le The Breeders non erano i The Pixies… quindi benvenga l’aiuto esterno. Last Splash si lascia ascoltare in maniera incredibilmente semplice, nutrendosi di pop rock, indie rock, roba hawaiana e un certo nonsoche di artistico, tipico elemento che manda in orgasmo multiplo i tizi vestiti con la giacchetta di tweed e le All-Stars. Last Splash ha le canzoni, leggere ok, indie ok, ma come Diavolo comanda. Hanno un senso e sono catchy senza essere sceme come la merda. Cannonball o Divine Hammer, solo per citare i singoli, le ascolto amcora oggi e mi sembrano tutto sommato fresche, tipici brani anni ’90 ma ancora ben conservati. E lo dico oggi che la sbornia è passata e tutto si è stravolto in guilty pleasure per certe band o canzoni.
[Zeus]

Malefici trentenni: Eyehategod – Take as Needed for Pain (1993)

Se dovessi cercare uno dei nomi che più mi piacciono nel mondo del metal, direi che EYEHATEGOD è da podio. Ha qualcosa di malsano, come una bestemmia lasciata marcire in bocca e poi sputata fuori tempo massimo. Non è esagerato, solo che riflette un sentimento che ritengo vicino al mio essere.
La musica, invece, è da disagiati. E questo, cari miei, è il grande complimento per un disco sludge. Perché lo sludge lo avranno creato i Crowbar, ma poi sono stati gli Eyehategod di Mike IX a portarlo avanti e, nel 1993, far uscire il secondo disco di una carriera che fra alti, bassi, fermi, droga a manetta e l’Uragano Katrina ha partorito solo 6 LP in poco più di 30 anni di carriera. Sono, e contemporaneamente non sono, l’esempio definitivo dello sludge: questo ha un suo rappresentante in diversi Stati degli USA (prima di emigrare in UK con gente come gli Iron Monkey o in altri posti sperduti dove si iniettano bruna messicana e sniffano colla anche a colazione), ma gli EHG hanno un vantaggio che tutta la stupenda teppaglia sludge non poteva neanche sognarsi: il supporto, e il patrocinio gratuito, di Phil Anselmo. All’epoca, il buon Anselmo era prodigo di parole e promozione per le band della zona NOLA, e non disdegnava di farsi un paio di pere con i suoi compari, quindi potete immaginare come il faro dell’attenzione pubblica si sia rivolto verso questa combriccola di tossici all’ultimo stadio (Mike Williams), tossici funzionali (Jimmy Bower – anche nei Down) e al resto della band che, in quanto a malattie e pulciosità, deve essere stato una gangbang fra punkabbestia e drogati attaccabrighe di Trainspotting.
Il suono che ne esce non può essere che il risultato di tutto quello che girava nelle paludi in quel periodo: droga e cadaveri a parte, si sente il blues, l’hardcore, tutto l’extreme metal e anche una mezza tonnellata di feedback per renderti la vita più simpatica.
Aggiungeteci il marciume dei testi, che parlano di cose stranote nel mondo rurale del Sud degli USA (Sisterfucker), della depressione esistenziale che produce pustole oscene sulle braccia del white-trash americano (White Nigger, Shoplift) e l’onnipresente passione sfegatata per qualsiasi cosa che unisca ossicodone, morfina e alcolismo nella stessa concezione esistenziale.
Mike Williams vomita le canzoni e trasmette tutto il malessere che ti aspetti da una band come gli EHG: sentitevi l’iniziale Blank e capite subito che tutto quello che ho detto è pura verità. I rallentamenti, il groove, il feedback e quella coltre di malattia che circonda la musica dei figli di New Orleans sono tutti elementi essenziali nella creazione dell’EHG-sound.
A me servono queste band: gli EHG, i Buzz-oven, gli Iron Monkey, gli “sfigatissimi” Soilent Green e via dicendo. Ne ho bisogno perché mi aiutano a far uscire dal circuito del sangue il marcio e lo schifo. Hanno capacità terapeutiche, sono la seduta dallo psichiatra di cui necessiterei, ma che non farò (almeno non nel breve periodo, a quanto mi risulta). Sono la malattia e il degrado che equilibra un mondo fatto di risvoltini, festival di San Remo, cazzate immonde, mode del cazzo e tutto quello che gira nell’industria dei lustrini, del corsivo e della trap.
Se non avete bisogno del compagno ubriacone, marcio, sporco e volgare, o vivete in qualche punto elitario del mondo o, porca puttana, non vi siete ancora accorti che il mondo sta andando a troie e voi state correndo incontro al dirupo facendovi selfie con un cazzo di Iphone.
Nel secondo caso, andate a cagare va.
[Zeus]

Tool – Undertow (1993)

Ho un debole per Undertow dei Tool, non è il miglior disco in assoluto ma, come detto altre volte, ha dentro alcune fra le canzoni che ascolto così, come caramelle mentre vado al lavoro. Una Prison Sex, Sober o anche una Bottom le ascolto sempre con immenso piacere. Ma sono le prime 5/6 canzoni che, a vent’anni di distanza, si lasciano sentire in maniera molto facile, fluida direi. E lo dico conscio del fatto che sto parlando dei Tool. Questo perchè, nel 1993, i Tool non erano ancora entrati “alla Materazzi” nel trip delle digressioni progressive che oggi sono componente fondamentale, e oserei dire unica, del loro suono (vedasi la sequela di dischi da Aenima ad oggi). Ad inizio ninties, la band beveva ancora avidamente dalla fonte dell’alternative metal; non è neanche una sorpresa, in quegli anni o cascavi dentro il nu-metal o finivi per trovarti il cardigan sulle spalle. I Tool, che nu-metal non lo sono, si gettano a pesce nell’alternative, pur concedendosi una spruzzata di composizioni più lunghe e complesse rispetto alla media del grunge o della musica alternativa da radio FM. Non mi ha stupito quindi trovare dentro Untertow pezzi intorno ai 4/5 minuti, a parte Bottom e Flood. Quello che differenzia l’esordio dal resto è che dentro Undertow circola una rabbia palpabile, da bile sulle labbra, cosa che poi finirà per essere inglobata in un contesto più alto, diluita nel sarcasmo, nelle figure retoriche e in testi astratti e con maggiori piani di lettura. Attenzione, la rabbia è ancora presente, sono solo i Tool ad aver alzato la mira dal colpo alle ginocchia ad una serie di ferite sanguinanti. I temi sono forse uguali, sesso, religione, paranoia ecc ci sono anche su Lateralus o Aenima e via dicendo), ma sul debutto sono trascritti con una dose maggiore di acidità, hanno un’urgenza diversa. Undertow prosegue molto fluido fino ad almeno , poi aumenta decisamente il peso e diminuisce l’immediatezza d’ascolto. Flood è pesantissima prima di cambiare ritmo nella seconda metà, pur riprendendo un po’ linee vocali già sfruttate, anche a 30 anni di distanza non è proprio la traccia che consiglio per iniziare la propria avventura dei Tool. Discorso identico per Disgustipated, canzone che non mi ha mai detto nulla.
Mi sembra di farvi un torto a dirvi che il debutto dei Tool è uno di quei dischi da ascoltare. Anche perchè se non lo avete fatto negli ultimi 30 anni, perché dovreste farlo leggendo questa “recensione”. Prima di arrivare a lambire dischi enormi come il duo Aenima – Lateralus, i Tool erano una di quelle band incazzate, pesanti e intelligenti, ma capaci di scrivere canzoni che, in un modo perverso, si ficcavano nella testa. Penso che la descrizione giusta sia, sapevano scrivere dei ritornelli con i controcoglioni.
[Zeus]

Trentenni sudisti. Lynyrd Skynyrd – The Last Rebel (1993)

A seguito del ritorno in pista (sic) con l’album Lynyrd Skynyrd 1991 e visto che il southern era ancora terreno caldo da battere, i Lynyrd Skynyrd cominciarono a tirar fuori dischi a cadenza triennale. Un bene? No di certo. La formazione post-incidente era composta da buona parte della vecchia cricca di redneck della prima ora (quindi tutti quelli che, in un modo o nell’altro, hanno reso grandi i Lynyrd Skynyrd), ma è anche vero che le idee si sono disperse nell’aria dell’autunno del 1977. The Last Rebel, A.D. 1993, prosegue sulla scia del precedente: un solo brano che realmente si fa ascoltare senza troppi lamenti (la title-track), mentre per i restanti 44 minuti scarsi sono solo canzonette che arrivano a malapena a salutare i brani più “deboli” di Gimme Back My Bullets. Cosa volete farci? Il 1993 era comunque un anno difficile per tutto quello che non era alternative, Pantera o nu-metal, figuriamoci per “residuati bellici” dell’epoca hippy. Non fraintendetemi, io adoro i Lynyrd Skynyrd storici, sono una di quelle band che dovrebbero essere portate a scuola e fatte suonare perchè hanno quel qualcosa in più; e non rompetemi il cazzo con il fatto che la The Allman Brothers Band era tutt’altra cosa. Lo so anche io che cazzo di chitarrista era Duane, ma io adoro comunque Allen Collins e il suo stile sul palco, tutto sberle, grinta e assoli da capogiro. Torniamo a The Last Rebel, che è meglio. Il disco è prodotto bene e con lo stile moderno dei Lynyrd Skynyrd, quindi suono grosso, chitarre lucenti e tutto un feeling che è quasi un incontro fra Last Vegas e Nashville. Non proprio da rebel rebel, ma è funzionale al nuovo corso della band.
Ed King e Rossington la fanno da padrone in sede di scrittura, aiutati da Johnny Van Zant e da Donnie Van Zant (terzo dei fratelli e leader dei 38. Special). Se non si può discutere sulla bravura e pulizia del duo sudista alla chitarra, né del resto della band se per questo, il punto più confortante e che distanzia questo LP da 1991 è che Johnny comincia a mostrare un pizzico in più di personalità; il problema è che, avendo sentito i dischi anche del repertorio del 2000, questo è il massimo che ha raggiunto in termini di evoluzione e di modulazione della voce. Tono roco, sudista (sentitevi Born to Run, peraltro una delle canzoni più riuscite fra quelle dimenticabili di The Last Rebel), caldo e che prova un po’ a farti ricordare Ronnie, ma è tutto qua sul piatto, non c’è molto altro da scoprire.
The Last Rebel è il tentativo di tenere alta la bandiera conferata con lo sforzo congiunto di tutti i membri superstiti della formazione originale. Però il tempo è cambiato, il 1993 di Bill Clinton non era il 1970 della guerra del Vietnam e di tutto il turbinio sociale e mentre prima i Lynyrd Skynyrd erano dei Re Mida che riuscivano a trasformare in oro quello che toccavano e arrivando a far tremare le gambe ai The Who, adesso non sono altro che dei Street Survivors. La band del 1990 tenta di portare avanti la tradizione, di essere a tutti i costi i Lynyrd Skynyrd, ma sembra essersi dimenticata di cosa l’ha fatta diventare realmente grande.
[Zeus]

Quando la testa non serve: Iron Maiden – A real LIVE one (1993)

Risultati immagini per iron maiden a real live one

Ci sono dischi che non si possono giudicare per il loro effettivo valore e ci sono canzoni che significano di più dell’unione musica+melodia+testo.
Riesci a giudicare tecnicamente la canzone che suonava quando baciavi la tua prima ragazza? Riesci a giudicare obbiettivamente quello che usciva dalla radio quando ti preparavi per andare al primo funerale di una persona a te cara? Riesci a dare un giusto peso alla squallida hit commerciale che veniva sparata dall’impianto di qualche orrido locale la prima volta che sei andato in ferie da solo?
Beh quelli bravi ci riescono, io no.

Era una primavera del ’94, ero sceso dalla 500 di mia madre (il cinquino originale, non quella roba rosa che guidano le fighelle adesso), e stavo nella piazza di un paese ad aspettare mio fratello. Per qualche strano motivo mio fratello non poteva, come tutti gli umani che vivono nella valle, prendere il treno per tornare da scuola, ma doveva prendere un Autobus di linea urbano, che aveva il capolinea in questo paesello poco distante da dove abitavo all’epoca.
Per qualche gioco strano degli dei che stavano guidando la mia giornata, io quella volta andai con mia madre a recuperare la fratellanza, uscii dalla macchina, mi allontanai dalla fermata dell’autobus per recarmi nei pressi di una casa a qualche decina di metri di distanza, senza apparente motivo, però il motivo c’era. Da un finestra a livello marciapiede usciva una canzone in loop, probabilmente da una cantina, ma non saprei bene dove, ma capii perfettamente le parole “fear of the dark, fear of the dark, i have the constant fear that someone is watching me, YOU!“.
Ecco, in quel momento gli dei che guidavano la mia giornata si ritirarono, e lasciarono al comando solo uno: un dio mancino, senza qualche falange e con i baffi. Non feci tempo a realizzare, che ero di nuovo stipato in macchina con mio fratello che blaterava qualcosa sulla sua giornata scolastica.
Non sarebbe finita li…

L’estate seguente ho trovato lavoro in un supermercato, la mattina reparto verdura, poi reparto bibite che d’estate le bibite finiscono presto, poi alle due, dopo la solita battutina del capo sul fatto che mi stavo lasciando crescere i capelli, si andava in piscina. Alla fine me la spassavo e tutto questo fino al 15 di Agosto, come per quella giornata di cui prima, i miei mi comunicano che bisogna andare a prendere mio fratello, che non può prendere il treno sempre per oscuri motivi. Però stavolta la fratellanza si trova in Germania, a lavare i piatti a Stocazzenburg o chi sa dove. Si va a prenderlo, e lui ci porta a visitare Stocazzenburg o come si chiamava e li c’era un negozio di dischi. Cacchio, io mi ero informato, ormai sapevo di chi era quella canzone di cui prima, che versione era, e da che disco proveniva e in quel negozio quel CD c’era. Non so come, convinco mio fratello a prendermelo, non perchè non avessi i soldi, lavoravo in quel minchia di supermercato, ma perchè, cazzo, me lo doveva e non è che potevo sempre accompagnare i miei a prenderlo perchè non prendeva i treni.
Torno a casa, mi compro uno stereo, perchè lo stereo è a casa in salotto, ho anche dei CD miei, ma quella è un altra cosa, una cosa solo mia, e passo il tempo che mi separa all’inizio della scuola ad ascoltarmi quel CD continuamente.
So benissimo che di dischi live dei Maiden c’è ne sono di migliori, con una selezione migliore di brani, ma io a quelle versioni di Tailgunner, Afraid to shoot stranger, Bring your daughter to the slaughter e Fear of the dark con il coro del pubblico ci sono particolarmente legato, e qui il mio giudizio non può essere obbiettivo.
Appena sento l’inizio di Be quick or be dead mi si apre il cuore,non posso farci niente. Ho troppi ricordi legati a questo disco per essere razionale.
A real LIVE one mi ha aperto alla mia religione ed è questo disco che ho fatto ascoltare ai miei figli appena nati.
[Skan]