Malefici trentenni: Eyehategod – Take as Needed for Pain (1993)

Se dovessi cercare uno dei nomi che più mi piacciono nel mondo del metal, direi che EYEHATEGOD è da podio. Ha qualcosa di malsano, come una bestemmia lasciata marcire in bocca e poi sputata fuori tempo massimo. Non è esagerato, solo che riflette un sentimento che ritengo vicino al mio essere.
La musica, invece, è da disagiati. E questo, cari miei, è il grande complimento per un disco sludge. Perché lo sludge lo avranno creato i Crowbar, ma poi sono stati gli Eyehategod di Mike IX a portarlo avanti e, nel 1993, far uscire il secondo disco di una carriera che fra alti, bassi, fermi, droga a manetta e l’Uragano Katrina ha partorito solo 6 LP in poco più di 30 anni di carriera. Sono, e contemporaneamente non sono, l’esempio definitivo dello sludge: questo ha un suo rappresentante in diversi Stati degli USA (prima di emigrare in UK con gente come gli Iron Monkey o in altri posti sperduti dove si iniettano bruna messicana e sniffano colla anche a colazione), ma gli EHG hanno un vantaggio che tutta la stupenda teppaglia sludge non poteva neanche sognarsi: il supporto, e il patrocinio gratuito, di Phil Anselmo. All’epoca, il buon Anselmo era prodigo di parole e promozione per le band della zona NOLA, e non disdegnava di farsi un paio di pere con i suoi compari, quindi potete immaginare come il faro dell’attenzione pubblica si sia rivolto verso questa combriccola di tossici all’ultimo stadio (Mike Williams), tossici funzionali (Jimmy Bower – anche nei Down) e al resto della band che, in quanto a malattie e pulciosità, deve essere stato una gangbang fra punkabbestia e drogati attaccabrighe di Trainspotting.
Il suono che ne esce non può essere che il risultato di tutto quello che girava nelle paludi in quel periodo: droga e cadaveri a parte, si sente il blues, l’hardcore, tutto l’extreme metal e anche una mezza tonnellata di feedback per renderti la vita più simpatica.
Aggiungeteci il marciume dei testi, che parlano di cose stranote nel mondo rurale del Sud degli USA (Sisterfucker), della depressione esistenziale che produce pustole oscene sulle braccia del white-trash americano (White Nigger, Shoplift) e l’onnipresente passione sfegatata per qualsiasi cosa che unisca ossicodone, morfina e alcolismo nella stessa concezione esistenziale.
Mike Williams vomita le canzoni e trasmette tutto il malessere che ti aspetti da una band come gli EHG: sentitevi l’iniziale Blank e capite subito che tutto quello che ho detto è pura verità. I rallentamenti, il groove, il feedback e quella coltre di malattia che circonda la musica dei figli di New Orleans sono tutti elementi essenziali nella creazione dell’EHG-sound.
A me servono queste band: gli EHG, i Buzz-oven, gli Iron Monkey, gli “sfigatissimi” Soilent Green e via dicendo. Ne ho bisogno perché mi aiutano a far uscire dal circuito del sangue il marcio e lo schifo. Hanno capacità terapeutiche, sono la seduta dallo psichiatra di cui necessiterei, ma che non farò (almeno non nel breve periodo, a quanto mi risulta). Sono la malattia e il degrado che equilibra un mondo fatto di risvoltini, festival di San Remo, cazzate immonde, mode del cazzo e tutto quello che gira nell’industria dei lustrini, del corsivo e della trap.
Se non avete bisogno del compagno ubriacone, marcio, sporco e volgare, o vivete in qualche punto elitario del mondo o, porca puttana, non vi siete ancora accorti che il mondo sta andando a troie e voi state correndo incontro al dirupo facendovi selfie con un cazzo di Iphone.
Nel secondo caso, andate a cagare va.
[Zeus]

Cosa ci rimane di Use Once and Destroy dei Superjoint Ritual?

Ad inizio 2000, Phil Anselmo era in due modalità: o non capiva un cazzo perché era strafatto di qualsiasi cosa possibile o era ubriaco ammerda. Tertium non datur, come dicevano quelli a cui si ispirano i Dark Funeral nei loro titoli. Però era anche un periodo di creatività assoluta, dove il singer dei Pantera si sbatteva fra mille progetti, fra cui non rientravano ovviamente i Pantera, questi tenuti in caldo ma mai realmente abbracciati del tutto post-Reinventing The Steel. Questo era Phil Anselmo ad inizio 2000, un emerito ubriacone con una tonnellata di dinamite nel cervello e una serie di uscite più infelici dell’altra, fra cui quella in cui aspira a veder picchiato di brutto il suo ex-compagno di band Dimebag Darrell. Per chi non se lo ricordasse, sono proprio gli atteggiamenti del redneck Phil a far partire la macchina Damegeplan e tutto quello che di tragico ne è poi uscito.
Intendiamoci, Anselmo non ha ammazzato Dimebag. Il singer era stupido forte, ma a far fuori il chitarrista ci ha pensato uno stronzo figlio di meretrice, togliendoci uno dei chitarristi/musicisti più influenti degli anni ’90. Phil era solo uno con la bocca grande, poche idee nel cervello e tantissima eroina e ganja a circolargli nelle vene.
C’è però un lato diverso da valutare, ad inizio 2000 Anselmo era irrequieto come non mai. Prima riesuma i suoi commilitoni dei Down e registra, in una nebbia alcolica-drogata, un LP come II – A Bustle In Your Hedgerow, poi si prende la briga di ricongiungersi con alcuni amici di scorribande alcoliche e tira fuori dal cassetto degli appunti lasciati in sospeso i Superjoint Ritual. Nessuno ne aveva mai sentito parlare, tanto che sono presenti solo due demo usciti fra 1995 e 1997 (guarda caso stesso periodo d’uscita dell’esordio dei Down) e il debutto ufficiale è questo Use Once and Destroy del 2002.
Io, e moltissimi insieme a me, all’epoca aspettavo le uscite di Anselmo o dei Pantera in maniera spasmodica, visto che Reinventing The Steel era un “finale in tono minore”, un disco scritto e registrato da una band le cui idee ormai non collimavano poi granché e quindi decisamente rivedibile.
Ecco perché ero ansioso di sentire cosa avrebbero prodotto i musicisti, i Pantera non potevano finire così (invece sì, ma all’epoca non lo sapevo!); ma mentre i fratelli Abbott erano in stand-by sperando che il drogatone di New Orleans si riprendesse dalla sbornia e rientrasse alla base, gli altri due si muovevano eccome: il paraculo Rex Brown saltava a bordo della nave-Down e Phil andava a cercare progetti sempre più marci ed estremi. E sappiamo tutti che cosa significa questa irrequietezza: dischi black metal che proprio non superano la soglia della decenza neanche a vent’anni di distanza, la perfetta creatività dei Down e ovviamente lo sludge, che si sarebbe rivelato, per un breve periodo, un buon approdo per il singer. E così i Superjoint Ritual, da demo prodotto nel passato, diventano una realtà attuale e una simpatica combriccola di ubriaconi con il compito di tenere testa alle fumantine idee di Anselmo.
Il problema di Use Once and Destroy non è riassumibile in un concetto solo, visto che si porta dietro tutti i classici handicap delle band dell’Anselmo solista. Per una serie di idee interessanti o di riff fatti bene, basilari ok ma almeno con dentro un po’ di cazzoduro (Ozena, The Alcoholik, lo strumentale Oblivious Maximus, Fuck Your Enemy o It Takes No Guts), c’è una bulimia di canzoni quasi insostenibile. Il debutto dei Superjoint Ritual dura 54 minuti e, pur esagerando in tutto, arrivare alla fine richiede un bel po’ di pazienza e determinazione. Questo perché i brani forti non sono tantissimi, mentre il resto è uno standard sludge-punk-metal fatto alla veloce, brutto, cattivo e portato in porto senza troppi pensieri di sovra-incisioni (ovvio!) o raffinatezze che potessero dargli un tocco in più e maggiore longevità. Headbanging ce n’è in abbondanza, così anche una sottile e deviata forma di orecchiabilità, ma le troppe tracce filler azzoppano la reale potenzialità di Use Once and Destroy.
Phil è in edizione The Great Southern Trendkill e quindi si sgola come un dannato, rovinandosi definitivamente la voce con uno screaming isterico, senza pause, mentre la sezione ritmica è funzionale e di più non chiedo ad un gruppo siffatto. Qualche parte di doppia c’è, un po’ di assalti frontali thrash e forse anche alcune idee quasi death, ma per il resto si va dritti verso la meta senza guardare né a destra né a sinistra.
In qualche modo perverso, i Superjoint Ritual sembrano prendere alcuni elementi base dei Pantera, rielaborandone la rabbia primordiale senza aver niente del resto. Ci sono passaggi, forse perché suonano molto The Great Southern Trendkill, che sembrano proprio una versione cavernicola della band dei fratelli Abbott. Niente di smaccatamente uguale, ma è una sensazione, insieme a quella di trovarsi di fronte ad una band che spara troppo spesso col Bazooka per uccidere i moscerini.
I Superjoint Ritual si sfalderanno come neve al sole nel giro di due anni, lasciandoci due dischi, due DVD dal vivo (fra cui uno registrato al CBGB) e si ripresenteranno al pubblico nel 2016 come sfiniti cinquantenni sotto il nome di Superjoint. Non produrranno un disco brutto, ma quella sensazione di totale abbandono del fegato, del cervello e di fattanza rimarrà per sempre legato al debutto e le sue 18 tracce di (incostante) marciume.

P.s: la copertina, però, è forse l’highlight di tutto il disco.
[Zeus]