Alcol, botte da orbi e droghe, in altri termini: Lynyrd Skynyrd – Second Helping (1974)

I Lynyrd Skynyrd sono una delle band della vita. Lo so, fino ad ora ne ho parlato abbastanza male o in maniera estremamente critica, ma c’è una bella differenza fra i Lynyrd Skynyrd pre-incidente aereo e quelli successivi. Un’enorme differenza. Non che fino al terribile giorno del 1978 non ci siano stati momenti di calo in casa Skynyrd, Nuthin’ Fancy o Gimme Back My Bullets non sono sempre all’altezza della fama della band, ma è indubbio che questi due LP “deboli” mangiano in testa a tutta la discografia post-reunion. Questo perchè, pur avendo ancora 2/3 dei chitarristi originali (Rossington, Ed King), mancava la capacità nel songwriting di Ronnie, la vena compositiva di Steve Gaines (che aveva portato freschezza ad una formazione debilitata da abusi e continue lotte) e l’estro di Allen, che ormai non era più della partita causa invalidità causata da un incidente in auto. Non è poco, signori miei. Se posso fare un paragone “estremo”, guardate cosa è successo a band come i Metallica o gli Slayer dopo la morte di uno dei membri più importanti del gruppo.
Ma non salto troppo avanti nel tempo. Adesso siamo nel 1974 e i Lynyrd Skynyrd sono una band che semplicemente spacca. Il tour americano come suppporto agli Who non solo aveva messo i floridiani sul radar, ma aveva addirittura messo una bella paura agli Who (spesso e volentieri surclassati dalla furia esecutiva degli Skynyrd). Il disco d’esordio, senza mezzi termini una bomba, era ancora caldo essendo uscito l’anno precedente e Van Zant e soci decidono di battere il ferro finchè è caldo e mettono a ferro e fuoco il Record Plant in California e continuano la collaborazione con Al Kooper. Cooperazione che potrebbe essere descritta come turbolenta, per usare termini generici, o una rissa senza quartiere per una migliore visione d’insieme. Second Helping è un disco che prende subito ed è un LP che distrae, ma non per colpa sua. Distrae perchè dei Lynyrd Skynyrd cosa si conosce? Sweet Home Alabama e poi? Il vuoto che si forma dietro quella canzone è così grande da far cadere nell’errore anche appassionati di musica a tutto tondo. Il fatto è che dentro Second Helping ci sono canzoni per tutti i gusti e non si ferma alla notevole, per quanto ormai usurata ed abusata Sweet Home Alabama (che trova il suo corrispettivo albionico in Smoke on the Water in termini di abuso/usura). Quanto è dolce e romantica I Need You (spaccando comunque con ottime parti di chitarra)? Quanto southern-blues c’è dentro The Ballad of Custis Loew. E poi il boogie assassino e il southern rock tagliato spesso con l’accetta rispetto alle raffinatezze degli Allman Brothers. Il piano honky-tonk di Billy Powell che imperversa su Call Me The Breeze di J.J. Cale? Per me son momenti di grandezza.
Il fatto è che all’epoca tutti i recensori avevano sputato sulla band, distruggendola sistematicamente nelle recensioni (sorte che li accomuna ai Black Sabbath), creando un confronto forzato – anche se, a volte, non troppo- con la Allman Brothers Band. Non era corretto, concepisco che la materia trattata è quella ma è l’approccio che cambia: tanto erano raffinati e professionali Duane, Gregg e Betts, quanto erano gente di strada i Lynyrd. E si sente nella musica. Non sto dicendo che suonavano male, sto dicendo che quella pericolosità, quella vena stradaiola e l’animo ruspante di Ronnie, Allen e compagnia era portato con fierezza.
Ho sentito Second Helping una vita fa, realmente, e mi si è inciso nel petto all’altezza del cuore. I Lynyrd Skynyrd non mi stufano, non mi deludono e spesso, quando non indulgo nella musica preferita da Bafometto, è proprio la vena sudista a soddisfare i miei istinti rock. Non per nulla una delle mie band preferite ha proprio fatto uscire un disco intriso di Lynyrd Skynyrd e Black Sabbath.
Sto riascoltando il disco come sottofondo mentre scrivo la recensione, non per rinfrescarmelo (potrei parlarne a memoria), ma proprio perchè il piacere assoluto di sentire i Lynyrd Skynyrd attaccare con tre chitarre spianate Workin’ For MCA è un gran bel sentire e mi mette in pace con il mondo. E soprattutto, per poco meno di 38 minuti, mi scordo che domani è lunedì e che il weekend è semplicemente evaporato con i primi caldi primaverili.
[Zeus]


Cinquantenni ruspanti. Lynyrd Skynyrd – (Pronounced ‘Leh-‘nérd ‘Skin-‘nérd) (1973)

Il primo disco dei Black Sabbath, Are You Experienced di Jimi Hendrix, Ten dei Pearl Jam, questo disco dei Lynyrd Skynyrd e molti altri, cosa hanno in comune? Sono dischi d’esordio con il botto. Dischi che hanno segnato epoche, che hanno fatto la fortuna della band che l’ha inciso o che ne hanno segnato così tanto il tragitto musicale da non permettergli di arrivare mai più a quelle vette (Ten dei Pearl Jam, ad esempio). Per quanto riguarda i Lynyrd Skynyrd il discorso è quasi simile, un LP così forte è difficile da superare anche se la formazione che lo compone è, in quegli anni, realmente capace di far esplodere gli stadi. La doppietta Pronunced… e Second Helping è talmente forte da farmela paragonare ad un Black Sabbath – Paranoid dei Nostri inglesi di fiducia. Ronnie Van Zant e compagnia sono in forma eccezionale nel 1973, talmente eccezionale da potersi permettere di la tripletta di chitarre che poi li accompagnerà quasi sempre nella loro vita artistica (l’eccezione si chiama Gimme Back My Bullets), di imporsi sul produttore (Al Koopers) e di fregarsene di tutto e tutti. Ecco perchè Pronunced… è così forte, perchè è la fotografia di una band che semplicemente sa cosa può fare e lo riesce ad esprimere in 43 minuti. Free Bird, Tuesday’s Gone o Simple Man non nascono per caso e non per caso rimangono a 50 anni di distanza dei classici con la c maiuscola della musica. Lo sapete un po’ tutti che i Lynyrd Skynyrd sono una mia band feticcio. Uno di quei gruppi che mi porto nel cuore perchè mi hanno accompagnato per lunghissimi anni della mia vita e che so essere un porto sicuro quando le cose vanno male. Sono il loro primo critico, non per niente i dischi post-reunion li ho massacrati in diverse recensioni, ma fino a Street Survivors siamo al livello dell’eccellenza. Non riesco a parlarne male, neanche di dischi un po’ meno ispirati come Nuthin’ Fancy o il suddetto Gimme Back My Bullets. Sono i Lynyrd Skynyrd che combattono contro tutti e tutto e anche in forma poco smagliante, sono capaci comunque di dare la polvere a moltissime band rock contemporanee. Forse perchè Ronnie ha la voce del fratello maggiore che sa, Simple Man, o forse perchè in fin dei conti sono una band di scalmanati ragazzi sudisti, agghindati con vestiti trovati al mercatino delle pulci di Jacksonville, bevitori accaniti, sniffatori seriali e delle teste calde senza riserve. Sono sinceri, ecco tutto. E hanno le palle grandi come il Texas, visto che all’esordio si permettono di sbattere fuori dalla porta uno come Al Kooper (creatore del Wall of Sound) perchè non convinto di Simple Man e registrare il brano senza il supporto del pluripremiato produttore.
Trequarti della scaletta di (Pronounced ‘Leh-‘nérd ‘Skin-‘nérd) è nelle mie compilation da macchina e non può che essere altrimenti. Un disco epocale che, a 50 anni di distanza dimostra la sua età, ma è talmente forte, compatto ed ispirato da fregarsene della carta d’identità e sembrare un giovanotto.
[Zeus]

Lynyrd Skynyrd – Vicious Cycles (2003)

Ho difficoltà a parlare di questo album, un po’ perchè sono rimasto scottato dal successivo DVD live (brutto e con l’atroce sospetto di playback) e un po’ perchè, all’epoca, entravo e uscivo dagli ospedali come fosse casa a causa delle condizioni di salute dei nonni. Succedono periodi demmerda, lo so, e certe volte li associ a dischi che non hanno certo colpa se la tua vita non brilla. Un po’ come l’avversione a certi Lp che ti prende alla fine di una relazione. Non è colpa di quell’artista se la tua vita sentimentale ha preso la direzione del letamaio, ma ha fatto da colonna sonora allo sciacquone dove son finiti gli anni investiti e quindi ne hai fisiologico rigetto. Detto questo, sappiate che Vicious Cycle è 100% Lynyrd Skynyrd post-1990. Poche idee da gettare sulla griglia, molto mestiere, una bella spruzzata repubblicana e 100% american lifestyle. Red White & Blue è così lampante nel suo essere parodia di quello che la band era nei seventies, da essere quasi piacevole. Però non mi si toglie di dosso la sensazione che questo Lp, in realtà non è l’unico, è sinonimo di una band destinata al terribile volere ma non potere. Rossington (pace all’anima sua) e compagnia si sbracciano, tirano fuori riff, melodie, il country, boogie-rock e  chitarrone ruspanti, ma alla fine erano condannati a rifare un’ennesima versione di Free Bird (Red White & Blue) o una nuova Simple Man (Hell or Heaven). Non riuscendo ad eguagliarle per ovvi, e comprensibili, motivi. I Lynyrd Skynyrd di inizio 2000 non volevano l’evoluzione, guardavano ostinatamente indietro aggrappandosi all’idea che quella era l’unica via che gli avrebbe permesso di sopravvivere. Resistere immobili per non soccombere. E il trentennale dall’esordio è un boccone troppo succulento per lasciarlo per strada, per non strizzare l’occhiolino e chiudere profeticamente il cerchio. Il problema è chei Lynyrd Skynyrd funzionano quando i pistoni viaggiano, in caso contrario si incagliano dentro cose che non reggono la prova del tempo; e a vent’anni di distanza, Vicious Cycle suona troppo loffio. Ma non parte male, perchè That’s How I Like It è ruspante e i mezzi flirt con il lato duro del rock di The Way (comunque già sperimentati su On The Hunt nel ’75) e i rimandi country di Dead Man Walkin‘ non sono male. Il problema sta tutto nei brani oltre questi e Red White & Blue. I duetti su Pick Em Up non accendono l’entusiasmo e la partecipazione di Kid Rock (!) su Gimme Back My Bullets è da angoscia pura. Il resto zoppica quando va bene e mi fa cascare le braccia quando va male. Troppo impomatati, troppo ostentatamente malinconici (i bei tempi che furono) per essere presi seriamente. E Johnny Van Zant non è un gran paroliere, cosa che non salva dall’esecuzione i brani più banali. È palese che su Vicious Cycle i Lynyrd Skynyrd abbiano tentato di conquistare tutti, giocando sui ricordi, sui rimandi e sul senso della Skynyrd Nation. La bomba gli è esplosa in mano, fornendoci un Lp molto debole, nonostante le premesse. Ironia della sorte, con i successivi God & Guns e Last of A Dyin’ Breed, la band tenterà il mezzo colpo di coda (riuscendoci in parte) prima di alzare le mani contro il destino bastardo. [Zeus]

R.I.P Gary Rossington (1951 – 2023)

La notizia era nell’aria già da tempo, ma non fa meno male al qui presente vecchio fan dei Lynyrd Skynyrd. La morte di Gary Rossington, e quindi la fine di un’epoca, mi ha preso un po’ male. Vuoi perchè, pur adorandoli, non ho mai visto i Lynyrd Skynrd dal vivo per una sorta di rispetto verso una formazione che non c’è più; vuoi perchè Gary Rossington rappresentava quell’anima sudista, quel southern rock, che tanto ha contribuito alla mia crescita musicale. Fondatore della band, superstite allo schianto, anima intorno a cui tutto il clan Skynyrd (la cosidetta Skynyrd Nation) si è riunita per la reunion e punto di collegamento fra i mitici anni ’70 e il presente, Gary Rossington è stato il motore dei Lynyrd Skynyrd per un’eternità. A lui si deve Sweet Home Alabama, così come la slide su Freebird o l’ispirazione per That Smell. Forse no è mai stato il mio Skynyrd preferito, a livello di pura immagine preferivo Allen Collins e, per carisma, Ronnie Van Zant, ma Rossington era, ed è stato, lo scoglio, il porto sicuro. Poteva succedere di tutto, la sfiga poteva abbattersi sulla band, ma sapevo che c’era Gary a tenere la barca a dritta. Non posso rimangiarmi le critiche per le uscite discografiche post-1990, non sarebbe corretto, all’epoca i Lynyrd Skynyrd erano una formazione di ricordi, dolore e tentativo, famelico, di andare avanti, di scrollarsi di dosso le ferite di una vita grama e bastarda. Però c’era lui, Mr. Rossington, che dava il suo imprimatur di onestà southern al tutto. Nonostante tutto, per me, questo era importante. Sapevo che nonostante le tamarraggini dei dischi natalizi, degli Lp spompi o con poche canzoni decenti, Gary Rossington era ancora il capitano della nave, il solo The Last Rebel. Con la sua morte finisce un’epoca, un periodo musicale che, per quanto bistrattato dalla tecnologia e dagli ascolti sempre più rapidi sulle piattaforme online, ha influenzato per sempre il mio modo di intendere la musica. Voglio ricordarmi la formazione originale al massimo del suo splendore, le risate, l’alcol e le botte fra Ronnie, Gary, Allen e tutti gli altri. Li voglio ricordare a fare il culo ai The Who. Eseguire Freebird in onore di Duane, con Rossington che ci mette l’anima sulla slide. Adesso quella canzone è anche per te, Gary. Che la terra ti sia lieve. [Zeus]

Trentenni sudisti. Lynyrd Skynyrd – The Last Rebel (1993)

A seguito del ritorno in pista (sic) con l’album Lynyrd Skynyrd 1991 e visto che il southern era ancora terreno caldo da battere, i Lynyrd Skynyrd cominciarono a tirar fuori dischi a cadenza triennale. Un bene? No di certo. La formazione post-incidente era composta da buona parte della vecchia cricca di redneck della prima ora (quindi tutti quelli che, in un modo o nell’altro, hanno reso grandi i Lynyrd Skynyrd), ma è anche vero che le idee si sono disperse nell’aria dell’autunno del 1977. The Last Rebel, A.D. 1993, prosegue sulla scia del precedente: un solo brano che realmente si fa ascoltare senza troppi lamenti (la title-track), mentre per i restanti 44 minuti scarsi sono solo canzonette che arrivano a malapena a salutare i brani più “deboli” di Gimme Back My Bullets. Cosa volete farci? Il 1993 era comunque un anno difficile per tutto quello che non era alternative, Pantera o nu-metal, figuriamoci per “residuati bellici” dell’epoca hippy. Non fraintendetemi, io adoro i Lynyrd Skynyrd storici, sono una di quelle band che dovrebbero essere portate a scuola e fatte suonare perchè hanno quel qualcosa in più; e non rompetemi il cazzo con il fatto che la The Allman Brothers Band era tutt’altra cosa. Lo so anche io che cazzo di chitarrista era Duane, ma io adoro comunque Allen Collins e il suo stile sul palco, tutto sberle, grinta e assoli da capogiro. Torniamo a The Last Rebel, che è meglio. Il disco è prodotto bene e con lo stile moderno dei Lynyrd Skynyrd, quindi suono grosso, chitarre lucenti e tutto un feeling che è quasi un incontro fra Last Vegas e Nashville. Non proprio da rebel rebel, ma è funzionale al nuovo corso della band.
Ed King e Rossington la fanno da padrone in sede di scrittura, aiutati da Johnny Van Zant e da Donnie Van Zant (terzo dei fratelli e leader dei 38. Special). Se non si può discutere sulla bravura e pulizia del duo sudista alla chitarra, né del resto della band se per questo, il punto più confortante e che distanzia questo LP da 1991 è che Johnny comincia a mostrare un pizzico in più di personalità; il problema è che, avendo sentito i dischi anche del repertorio del 2000, questo è il massimo che ha raggiunto in termini di evoluzione e di modulazione della voce. Tono roco, sudista (sentitevi Born to Run, peraltro una delle canzoni più riuscite fra quelle dimenticabili di The Last Rebel), caldo e che prova un po’ a farti ricordare Ronnie, ma è tutto qua sul piatto, non c’è molto altro da scoprire.
The Last Rebel è il tentativo di tenere alta la bandiera conferata con lo sforzo congiunto di tutti i membri superstiti della formazione originale. Però il tempo è cambiato, il 1993 di Bill Clinton non era il 1970 della guerra del Vietnam e di tutto il turbinio sociale e mentre prima i Lynyrd Skynyrd erano dei Re Mida che riuscivano a trasformare in oro quello che toccavano e arrivando a far tremare le gambe ai The Who, adesso non sono altro che dei Street Survivors. La band del 1990 tenta di portare avanti la tradizione, di essere a tutti i costi i Lynyrd Skynyrd, ma sembra essersi dimenticata di cosa l’ha fatta diventare realmente grande.
[Zeus]

Puzza di piedi e Moonshine. Alabama Thunderpussy – Staring At the Divine (2001)

Gli Alabama Thunderpussy sono una mia band feticcio. Non propongono niente di nuovo, ma Cristo se sono la colonna sonora perfetta per una grigliata. Ignoranti come un procione, brutti come il vaiolo ma con un groove spaccasassi.
Potreste anche ricordarmi che il disco scorso l’avevo mezzo scartato, dicendo che la band si avvicinava veloce e contenta verso il viale cipressato e che stava perdendo appeal e anche la capacità di scrivere grandi canzoni. Perché, signori miei, se teniamo buono il ruspante Rise Again, River City Revival è tutt’oggi uno dei miei dischi preferiti e non perché sia perfetto, assolutamente no, ma dentro ha Le Canzoni. Il problema viene dopo quel disco.
Dopo aver mezzo pisciato fuori dal vaso nel 2000 con Constellation, i buzzurri sudisti si saranno probabilmente convinti che il punto forte del loro sound è quello di essere composto in parti uguali dal berciare nel microfono, dagli amplificatori fritti e a palla e dall’attitudine che far rimbalzare denti a destra e sinistra agli ascoltatori.
Per certi versi, Staring At the Divine era proprio questo, un disco sludge/southern stoner con i chitarroni che grugniscono, in perenne distorsione ma con una spiccata sensibilità melodica, ed una sezione ritmica basilare ma efficace. Elementi che erano nel DNA degli Alabama Thunderpussy dal primo giorno, non puoi certo eliminarglieli a calci nei denti a causa del cambio di annata, e quando quel miscuglio lo facevano esplodere… beh, scansatevi tutti. Poi si son presi una sbronza ed è uscito Constellation, che brutto non era, ma che sbiadiva nei confronti di quanto fatto prima. Nel 2001, però e non so bene come, Larson e Lake riescono a maneggiare con continuità quel DNA-bomba che fuoriesce più di frequente rispetto a Constellation e che, mea culpa, mea grandissima culpa, mi fa rimangiare un po’ le parole scritte l’anno scorso.
Memoria di merda, la mia.
Non transigo però sul puntare l’indice sul “problema Throckmorton”: il buon Johnny si era scoperto cantante negli LP precedenti e niente, già questo dice tutto, perché da lui io esigo solo una cosa: lo voglio sentire sporco e incazzato, senza effetti o cialtronerie. Il secondo punto debole era l’ispirazione altalenante: pur essendoci più picchi rispetto al 2000, anche su Staring At the Divine gli Alabama Thunderpussy hanno rischiato più volte di perdere il filo del discorso e produrre troppe tracce come Back And Call, canzone abbastanza scialba; fortunatamente avevano ancora abbastanza droghe ed entusiasmo per venirne fuori con dignità e produrre alcuni groove da testate sul volante (Whore Adore riesce nell’impresa). Nella seconda parte del disco, probabilmente in pieno delirio da Moonshine, i loschi figuri sudisti giocano a rifare i Lynyrd Skynyrd dello sludge e provando a tirar fuori un afflato epico non esce mai al 100%: Twilight Arrival non convince appieno, Esteem Fiend vive su un buon ritmo, ma sui 6 minuti rischia spesso di incespicare in territori lugubri ritornando sul seminato appena in tempo e anche l’autobiografica S.S.D.D. (classica canzone “on the road” sulla scia di Turn the Page) “rocka ma non rolla”, per usare un classico del giornalettismo inglese.
A vent’anni di distanza riguardo Staring At the Divine con maggiore indulgenza e con più affetto, ma l’ispirazione vera, quella che me li aveva fatti amare, non c’è più e questo è innegabile anche riguardando questo LP con la lente della nostalgia. Avessero fatto uscire un EP con solo le prime 6 canzoni (e forse forse Esteem Fiend), avrei cambiato idea? Credo di sì e probabilmente già allora avrei considerato Staring At the Divine un passo avanti verso un futuro più salutare.
[Zeus]

Dopo la tragedia. Lynyrd Skynyrd – 1991

Nel 1991 i Lynyrd Skynyrd non erano altro che l’ombra di sé stessi, martoriati da morte e sfiga, che poi è una costante della band. Nel 1977 lasciano questa valle di lacrime il vero motore della band (Ronnie Van Zant) e il chitarrista che, in Street Survivors, era riuscito a rivitalizzare una band allo sbando fra droghe, alcol e risse: dicasi Steve Gaines. I superstiti all’incidente aereo si disperdono in mille progetti, fra cristiani rinati (Billy Powell) e tentativi di portare avanti una visione musicale (il duo Rossington Collins e, in proprio, Artimus Pyle). Progetti che hanno avuto alterne fortune, tanto che l’unico che tiene botta a distanza di anni è proprio la Artimus Pyle Band.
La sfiga, che dei Lynyrd Skynyrd è amica stretta, mette alle corde Allen Collins che, nel giro di un paio d’anni perde figlio, moglie e poi, totalmente sfondato di alcol e droghe, causa l’incidente in cui perde la vita la fidanzata. Ah, e nello stesso rimane paralizzato dalla vita in giù, Giusto per essere sicuri che si porterà sulla coscienza una croce grande così.
Praticamente, i Lynyrd Skynyrd sono una band da ascoltare con entrambe le mani posizionate in maniera ferrea sulle palle.
Undici anni dopo l’incidente aereo, i Lynyrd Skynyrd ritentano la fortuna e ritornano sul palco e, violando gli accordi fatti post-incidente, registrano Southern by the Grace of God, con tanto di Allen Collins tenuto in formazione come mascotte e, udite udite, come esempio vivente di sfiga conclamata – tanto che deve fare ammenda ogni singola data del tour davanti alla platea.
Questo supplizio dura pochi anni, visto che nel 1990 Collins tira le cuoia per una polmonite e il resto della band, ormai con i motori caldi e volenterosa di far fischiare le chitarre, sforna Lynynrd Skynyrd 1991. Visto che la situazione è propizia, tutti i Lynyrd Skynyrd viventi sono presenti e la formazione è quasi quella originaria, con tanto di rientro di Ed King alla chitarra e formazione a tre completata da tale Randall Hall (della fu Allen Collins Band).
Se la voglia di ritornare a sfoderare musica è genuina, il periodo storico in cui escono non segnala più il florido 1970, ma il 1990 con tanto di grunge, di metal e tutta quella strana avversione verso i dinosauri del rock (giusto per dire, nel 1990, al momento della morte, Allen Collins aveva 37 anni, non 90).
Ecco il perché l’ultimo disco che riporta la voce disco di platino è Street Survivors, ultimo LP che fa realmente breccia nel cuore, mentre il resto è più un carrozzone trucco e parrucco in cui solo con gli ultimi due dischi, Rossington, ormai l’ultimo dei Mohicani, fa ancora sembrare i Lynyrd Skynyrd qualcosa che valga la pena sentire a fronte di tutta la pacchiana retorica da americani repubblicani conservatori, ma finti hippy.
Lynyrd Skynyrd 1991 parte anche con grinta e Smokestack Lightning è il singolo che tira tutto LP, ma è poca cosa rispetto a qualsiasi cosa i rocker di Jacksonville abbiano mai scritto negli anni ’70. Quello che però si sente è il tocco di Ed King, il suo modo di suonare la chitarra dona un tocco vintage a tutto, ma è sepolto dai chitarroni grossi, spessi e power che contraddistingueranno i Lynyrd Skynyrd per i successivi 30 anni. Chitarroni laccatissimi e leccatissimi, che pompano ma che non hanno un briciolo della reale potenza che avevano quando il trio era composto da Collins – Rossington – King (o Gaines). Il songwriting è all’Uranio impoverito, decade con il passare dei minuti e più la tracklist si dispiega nelle orecchie, più capisci che le idee non sono pochissime e che a partire da Pure and Simple, quella che diventerà la classica ballad sui “bei vecchi tempi andati” e che sarà ripresa in tutte le forme possibili in ogni disco, e ancora di più con la successiva I’ve Seen Enough, ti verrebbe voglia di mettere in hold il disco per non metterti a piangere dalla depressione.
Johnny Van Zant, che del fratello prende aspetto e qualcosa nella tonalità della voce, ma è un songwriter quantomeno discreto, più volontà che classe cristallina e anche Rossington, senza i suoi sodali Ronnie e Allen, non riesce realmente a farsi valere il suo notevole valore come scrittore; vale però la pena ricordare che in Street Survivors la gran parte del materiale era di Steve Gaines, lasciando i due altri chitarristi a giocarsela su tre pezzi su otto.
Da questo buco di songwriting, i Lynyrd Skynyrd non si riprenderanno più, tanto che il massimo lo fanno quando si buttano a fare il verso ai dischi degli anni ’70 e non quando si cimentano in cose nuove.
Vi giuro, mi dispiace anche essere così critico questo 1991, perché il disco non sarà niente di che, ma almeno è al 90% sincero nella volontà di riprendere in mano la propria storia; solo con il passare degli anni sono arrivate le deviazioni fatte per soldi e con queste una serie di tristi baracconate che si vedono nei video ufficiali della band.
La cosa che ancora oggi mi deprime fortemente, è che i Lynyrd Skynyrd attuali non sono neanche la miglior cover band di sé stessi, subendo la stessa sorte di Charlie Chaplin quando si presentò al provino per impersonare sé stesso e, per sfregio, non venne neanche scritturato perché non ritenuto all’altezza.
La sfiga, cari miei, ci vede benissimo.
[Zeus]

Oh my God, nel 2000 usciva America's Volume Dealer dei Corrosion of Conformity…

… e sto ancora cercando di capire se questo disco mi piace veramente o lo trovo troppo leggerino e carino. Non nego che ci siano dentro canzoni che mi ascolto regolarmente (paradossalmente le meno southern metal/rock possibile: Stare Too Long e 13 Angels), ma per il resto?
Negli scorsi anni i Corrosion of Conformity sono stati accusati di tutto e il contrario di tutto per quanto riguarda la cosiddetta svolta hard rock southern dei Metallica: li hanno influenzati, sono co-responsabili o ne sono stati attratti, tanto da smettere quella forma di southern-metal e prendere la via commerciale e radiofonica della musica.
Ritorneranno a suonare pesante nel recente passato, ma nel 2000 Keenan&Co. si prendono male e ne esce America’s Volume Dealer
Le canzoni scivolano via bene, con Pepper a farla da padrone, ma ti lasciano dentro poco: mettetele in confronto ad una Albatros o un King of the Rotten e capite che non c’è storia. Che la formula easy listening con l’occhiolino strizzato alla radio non ha proprio il tiro necessario.
I C.o.C citano i Lynyrd Skynyrd, ma prendono la versione chitarrone ma senza contenuti e si dimenticano alla grande quelli ruspanti e boogie dei primi seventies.
Il cambio d’annata, il giro di boa, il Millennium Bug e la incredibile crisi che incontra l’industria musicale giocano sporco con il songwriting di Keenan e lo spogliano di molte delle caratteristiche bomba che mi avevano ampiamente soddisfatto nelle annate precedenti. Questo comporta, in pratica, che alla resa dei conti la band americana non riesce a finalizzare la grande cassa di risonanza che ha avuto con dischi di spessore e tour sempre più grossi.  
Logico, non sono certo i soli a soffrire questo cambio di secolo, tanto che un’altra band nata nel mito dei Lynyrd Skynyrd (gli Alabama Thunderpussy), gli fa buona compagnia sotto il profilo della delusione generale. Ed è proprio in questi anni che incomincia la “primavera dello stoner”, dopo anni di scantinati e band che si sbattono senza ricevere il ben che minimo riconoscimento per quello che fanno. Nei primi 2000 lo stoner, ormai canonizzato da gente come i Kyuss (per fare un esempio) nella sua versione “classica” o trasportato in territori più sporchi e misti all’hardcore o altri generi musicali, nella versione “lo sludge” (sto semplificando molto, lo so), raggiungono una visibilità prima in esclusiva degli amanti di certe sonorità. 
E questo è il paradosso di tutto, perché i Corrosion of Conformity puntano sul rosso, ma la roulette tira fuori il nero e si perdono a seguire le sirene di un sound più commerciale e “radiofonico”, tentando invano di stabilire una relazione stabile con il successo. Vi faccio uno spoiler nel passato, la relazione non è andata come volevano, loro volevano di più ma non era cosa e quindi ecco lo scioglimento per 5 anni dove Pepper ritorna a macinare palchi e musica con i suoi sodali dei Down.
Detto questo, a vent’anni di distanza ancora non riesco a capirlo questo disco: non è brutto in senso lato, ma è un disco ignavo, fatto per compiacere tutti e non scontentare nessuno. Lo ascolto per qualche canzone, ma mai nella sua interezza. Forte nella breve distanza, incapace di ammaliarmi quando si parla di LP. 
Se dovessi indicare un disco “debole” nella discografia dei C.o.C. potrei dire che America’s Volume Dealer è lì a giocarsela senza neanche vergognarsene troppo. 
La domanda che mi pongo adesso è: ma realmente lo volevano così? 
[Zeus]

Lynyrd Skynyrd – Edge Of Forever (1999)

Scrivo questa recensione nell’anno in cui i Lynyrd Skynyrd annunciano il loro ritiro dalle scene. Probabilmente per sfinimento, visto che la sfiga ha avuto un accanimento particolare su questa combriccola americana e, alla fine, devono aver pensato “ok, hai vinto tu, ci ritiriamo! Adesso basta però“. Se lo meritano di uscire di scena da grandi, anche se sono anni che non producono niente di veramente interessante (ok, gli ultimi due dischi in studio sono buoni, ma stiamo parlando di prodotti che i “vecchi” Skynyrd non si sarebbe mai sognati di buttar fuori). Se lo meritano, perché ultimamente l’unica cosa veramente eccitante, e morbosa, è l’attività da “vecchio dimmerda” di guardare le notizie musicali e sperare di non incrociare lo sguardo sul necrologio di uno dei Lynyrd Skynyrd.
Ironia della sorta, fino al 1977 la Nera Signora aveva giocato al gatto e al topo con la band, utilizzando “elementi esterni” (il famigerato aereo) per mettere fine ad una delle band più incendiarie degli anni ’70. Solo dopo il 1990 è intervenuta di persona falciando i membri originali della band con il suo arsenale migliore: malattie, overdosi e tutto quello che una vita di eccessi, e di sfiga si porta dietro.
La Triste Mietitrice ci ha tentato anche con gli unici due Skynyrd originali rimasti, Rossington e Rickey Medlocke – primo batterista della band -, ma si vede che pur avendo una predilezione per questi americani, deve avere un cuore gentile e ci ha lasciato in piedi, barcollanti, almeno due memorie storiche del tempo che fu.
Sono proprio gli anni ’90 a forgiare il nuovo sound dei Lynyrd Skynyrd. Il tempo passa e le mode incominciano ad intaccare il sano approccio boogie rock, torrenziale e ruvidissimo (tanto da concepire Freebird e fare il culo agli Who), trasformando la band americana in una Big Band che suona un hard rock innocuo, condito da chitarroni enormi e pochissima efficacia nel songwriting. Se poi aggiungiamo anche l’inspienza dei testi, rivolti ad una retorica di stampo conservatore (e fin qua, ok, sono sudisti ed è nel DNA), osserviamo che la band appiatisce di molto sia il lato musicale che quello testuale, banalizzando il tutto.
Non si può sempre parlare di scazzottate e bevute, ma diventare l’organo di propaganda di Fox News forse è troppo.
Considerazioni politiche a parte, Edge Of Forever riflette in toto la nuova era della band americana. Dentro al disco troviamo quindi i chitarroni grossi, puliti e scintillanti nel mixing, le backing vocals femminili (comunque già introdotte in pianta stabile da Street Survivor), le tastiere honky tonk di Billy Powell e, ovviamente, a svettare su tutto c’è la voce di Johnny Van Zant: simile a quella di suo fratello Ronnie, ma a cui manca la ruvidezza e il vissuto del fratello maggiore.
Per non scontentare nessuno, soprattutto le radio, le canzoni hanno la durata standard (4/5 minuti) e i brani migliori vengono messi tutti nella prima parte dell’LP: ecco quindi Workin’, Full Moon Night e Preacher Man (ci aggiungerei anche Mean Streets), piacevoli hard rock con spazzolata di spirito sudista sopra.
Ovviamente non mi posso aspettare i “vecchi Skynyrd”, ma nel 1999 quello che si sente è qualcosa di strano: la band sembra essere il fratello mutato in cui convivono brevissimi geni del DNA Lynyrd Skynyrd, una parte di .38 Special (band del fratello Donnie Van Zant) e poi l’occhio a non essere troppo “fuori moda” rispetto alla seconda/terza ondata di southern rock commerciale. Questo mix non produce niente di eterno, ma nella prima parte c’è sicuramente un buon impatto melodico e di groove.
Da qua in avanti gli Skynyrd diventano discontinui e quando non cercano il “revival” (la ballata Tomorrow’s Goodbye è una mezza copia di All I Can Do Is Write About It) assestano troppi episodi deludenti (ad es. l’hard rock slavato di Through It All o Money Back Guarantee).
Il problema di Edge Of Forever è il songwriting che, per quanto bene li si voglia, non gira appieno. Questo perché i responsabili, chi ha le chiavi della vettura, non sono proprio dei campioni e non hanno mai scritto niente di realmente eccitante: i Blackfoot di Medlocke hanno fatto sì e no una vera hit, mentre gli Outlaw di Thomasson erano una mezza copia già all’epoca.
Su Johnny e Rossington il discorso è diverso: se Johnny deve portarsi appresso un peso enorme (senza avere la qualità eccelsa di Ronnie), il secondo, pur talentuoso e capace di scrivere hit incredibili, già nel periodo di massimo splendore della band era in seconda posizione dietro al vulcanico Allen Collins e, in Street Survivors, anche al nuovo entrato Steve Gaines.
Al problema del songwriting, si aggiunge anche una seconda considerazione: dal 1991 in avanti, i Lynyrd Skynyrd non sono riusciti a tenersi una line up fissa neanche a volerlo. Questo comporta che quello che rimane della band sono dei volonterosi gregari, le impennate d’orgoglio di Gary Rossington (via via sempre più monumento di sé stesso e della band stessa) e l’incredibile somiglianza di Johnny a suo fratello. 
Troppo poco per essere i veri Lynyrd Skynyrd. Troppo poco per spostare Edge of Forever dalla seconda metà classifica della produzione discografica dei ragazzi di Jacksonville.
[Zeus]