Il fan service dei MayheM produce Daemon (2019)

Attualità passata: ascolto il nuovo disco dei MayheM e, francamente, non lo capisco.
Mi spiego meglio. Daemon dei MayheM è l’equivalente del fan service nelle serie televisive. C’è tutto quello che deve esserci, arriva a destinazione perché progettato in laboratorio per essere efficace, ma non ha nessuna anima. Non ha veemenza pur mettendoci potenza e black metal.
Il fatto è che non posso neanche volercela con loro, tanto sono fatti così. Acchiappano le mode, mutano forma e costumi, provando a restare MayheM, ma senza avere bene in mente cosa significa esserlo. I Mayhem sono diventati un mito astratto, mentre la realtà terrena è tutt’altra cosa e di tutt’altra pasta. Il mito paga le bollette, Attila e compagni mettono le tonache (come da dettami del black metal moderno), eseguono in toto De Mysteriis Dom Sathanas riportando la band sui radar e poi registrano l’album senza sugo Deamon. Il bassista rilascia dichiarazioni deliranti, la storia fatta con i SE – edizioni Necrobutcher, e intanto Teloch e Ghul scrivono il disco cercando di suonare come… beh, come dovrebbero suonare i MayheM nel 2019 o nel 1999 o nel 1994? Perché la band, non avendo forma definitiva (a parte, forse, la parentesi con Blasphemer), non è circoscrivibile ad un periodo definito. Daemon suona old, suona black metal e, nello stesso tempo, ha l’attitudine più nuova, quella post-rivoluzione copernicana, post-Euronymous.
Il nuovo disco è figlio della band, non ci sono dubbi. Non potete sentire questo LP senza pensare che è qualcosa prodotto dai MayheM. Lo si sente in mille passaggi e ti fa sentire al sicuro e tranquillo che il disco che hai acquistato ha un senso.
Ma quale?
Questa è la domanda su cui dovete soffermarvi, quale senso ha Daemon. Aggiunge qualcosa, toglie qualcosa, ha cuore, ha innovazione…? La risposta è, per tutte, no. Non aggiunge niente, è un prodotto della restaurazione, non della rivoluzione (di cui i Mayhem, per un periodo, erano portabandiera). Non è brutto, quindi lo puoi sentire senza fare gli scongiuri. Per il resto, è semplicemente un disco che lascia il tempo che trova.
Che non ti emoziona. Che non ti prende le viscere e te le rivolta.
Sarà che son passati troppi anni dal 1990, sarà che internet ha distrutto il velo di Maya e adesso non c’è più quella fanciullesca attesa del disco, ma io continuo ad emozionarmi quando sento Freezing Moon o rimango sempre, ed inevitabilmente, stupefatto, quando ascolto Grand Declaration of War. 
Ma anche, come ho detto nella recensione, un “semplice” EP come Wolf’s Lair Abyss supera di gran lunga le 10 tracce contenute in questo LP. 
Paragoni irriverenti, sia chiaro, perché è difficile valutare due epoche così differenti, ma se è su quell’epoca che la band attuale sta marciando, allora tanto vale svelare che il Re è Nudo e dietro Daemon c’è forma, ma non sostanza.
[Zeus]